Intervista a Tony Cragg. Forme e funzioni del sublime
Fino al 18 settembre Tony Cragg è in mostra alla Lisson Gallery di Milano. Cinque gruppi scultorei di grandi e piccole dimensioni, insieme a una serie di disegni, non impediscono all’artista di Liverpool di raccontare molteplici punti di vista sul suo percorso.
Fino al 18 settembre, la sede milanese della Galleria Lisson fondata da Nicholas Logsdail ospita la personale concepita da Tony Cragg (Liverpool, 1949), che si presenta con una nuova serie di sculture in bronzo, legno, pietra e acciaio inossidabile. I suoi volumi, un omaggio alla funzione della spiritualità, sono frutto di una pratica scultorea che si ispira alla dinamica intrinseca dei materiali e alla conformazione del mondo naturale. L’artista, da alcuni anni affascinato dalla consistenza di pietre e metalli caratterizzati da alta densità e peso specifico, conferisce loro forme plastiche trascendenti, alleggerite, nelle estensioni volumetriche, come nuvole di materia prima.
Una mostra che si presenta come una sorta di prolungamento ideale dell’evento che il 16 aprile, sulla terrazza del Duomo, ha presentato, tra le guglie in marmo rosa, sette sculture di Tony Cragg. Non bisogna inoltre dimenticare che, a qualche decina di chilometri dalla Lisson Gallery, ad Agra (in Svizzera, nel luganese), presso la Buchmann Gallery, il 9 maggio scorso Cragg ha inaugurato un nuovo percorso personale, tuttora in corso, moltiplicando le possibilità di visitare, da città a città, i lavori dello scultore britannico nei mesi di Expo.
Come descrivere la tua relazione estetica con l’Italia e il paesaggio italiano? Si tratta di una relazione di lungo corso o di un legame profondo ma più recente?
Ho allestito la mia prima personale in una galleria, in Italia, a Milano, nel 1979. Quindi potrebbe ritenersi un legame di lunga data, ma anche profondo. Nello stesso anno ho inaugurato anche una mostra a Napoli con Lucio Amelio, la mia seconda mostra in assoluto; inoltre ho lavorato per molti anni con la galleria di Tucci Russo e forse, riguardando indietro nel tempo, tra musei e gallerie, ho aperto oltre venti mostre in Italia.
Credo dunque che la mia sia una relazione piuttosto lunga con questo Paese e assolutamente feconda, fondamentale. Inoltre, quando ero più giovane apprezzavo moltissimo lo status che l’artista acquisiva nel vostro Paese. Un po’ come succede oggi nel mondo, che gli artisti diventano molto famosi, popolari e benvoluti. Negli Anni Settanta succedeva lo stesso, la presenza degli artisti sembrava sempre un dono, ognuno aveva un riguardo speciale per noi, eravamo assolutamente presi sul serio, almeno da parte di alcuni. Forse perché l’Italia è circondata dalla bellezza e dalla cultura e il contemporaneo acquista una funzione particolare qui, dovendosi fare carico di curare anche la bellezza, nonché il sapere, dell’antichità.
Quali artisti italiani apprezzi maggiormente?
Credo di essere abbastanza vecchio per avere ancora un sentimento di rispetto nei confronti degli artisti del Dopoguerra in Italia, che hanno avuto un ruolo fondamentale in quel periodo. Hanno dovuto mettersi in cerca di una nuova iconografia e una sorta di nuova religione per quel tipo di società in via di rigenerazione. Si trovavano fra la necessità di rivoluzionare e quella di riformare il concetto di estetica, come successe per Manzoni o Vedova e molti, molti altri, fino ad arrivare all’Arte Povera. Sono stati loro a creare una nuova identità italiana unica, che credo sia come, nella contemporaneità, il vostro Paese sia ancora oggi apprezzato nel mondo.
Quanto invece il paesaggio naturale italiano ha influenzato il tuo lavoro, al di là del clima culturale?
Sono categorie difficili da separare. Anche se ogni volta che torno diventa sempre più difficile percepire il paesaggio, soprattutto a Milano, perché è molto raffinato dalla storia e dall’architettura. L’Italia si trova in una culla di molteplici civiltà che hanno lasciato registri di segni da migliaia di anni. Qui ci troviamo in una delle parti più antiche del mondo, delle quali si è presa cura una parte dell’umanità per molti, moltissimi anni. Quindi ritengo sia difficile intravedere, come in altri luoghi, un paesaggio primigenio, ma qui in special modo.
In Toscana, ad esempio, è possibile rilevare l’esistenza di un territorio, le sue peculiari conformazioni manipolate dall’uomo: sono una sorta di piccolo paradiso. Quando lavoravo a Siena, infatti, non ho potuto fare a meno che concepire una mostra dal titolo Fields of Heaven (1998): l’eden, il paesaggio ideale, non è nient’altro che il tempo del lavoro nel quale la gente profondamente crede.
In questo scenario, che ruolo hanno i tuoi lavori?
Al di fuori della tradizione, per alcuni artisti, e solo per alcuni di loro, c’è un percorso duro di affermazione di una nuova estetica. Un conflitto non necessario tra quel che realizziamo e quel che troviamo, o meglio quel che la natura ci fa trovare. Possiamo concepire prodotti industriali ma di design, ripetendo le lezioni imparate dalla natura che lei stessa ha avuto modo di esperire e perfezionare in qualità di forme, durante miliardi di anni, trovando interrelazioni molto complesse.
Quindi è la natura che ha sempre plasmato, e non noi?
Ovviamente sì, siamo noi a restituirne felici parodie di questo rapporto. Il rapporto umano, tecnicamente è basato su una sorta di modalità di estensione, di riflesso di se stesso nella materia. In questo modo noi utilizziamo i materiali a disposizione per costruire, inventare, circoscrivere e per definire le migliori strategie di sopravvivenza. Rendendolo un approccio relativamente semplice, meccanico, di scelta delle materie prime, per aumentare anche i giochi, gli scambi economici che sottendono alle loro lavorazioni. Per questo stesso motivo, per agevolare le piazze dei mercati, forse, si tende a dare agli oggetti forme geometriche intuitive, superfici disponibili, rendendoli, attraverso rifiniture di poco pregio, più maneggevoli e mediamente piacevoli, attraverso l’utilizzo di disegni, ricerche e linee standard.
Qual è la tua personale definizione di realtà?
Io sono solo uno scultore. Mi interessa comporre nuove entità attraverso la materia e quel che io vedo, comprendo e traggo da quel che mi circonda diventa non necessariamente plasmabile, ma osservabile in quanto fenomeno passibile di una trasformazione. Non a tutto, però, si può imporre una forma. I milioni di neutrini che passano per il nostro corpo, ad esempio, non sono imprigionabili in un volume, in una linea: non possiamo cambiare la luce. Eppure per me anche i neutrini sono sostanza, soggetto, elemento di osservazione, sebbene sia possibile modificarli solo intervenendo su una piccola parte del loro spectrum. Proprio come succede ai materiali che si muovono tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo.
Cosa racconta la tua prima mostra alla Lisson Gallery di Milano?
La scultura, ancora una volta, diventa un racconto su come la materia e le sue forme ci influenzino. Ogni forma qui esposta effettivamente ci cambia. Non solo i miei lavori, ma anche il pavimento liscio, senza imperfezioni, il cielo fuori, che insiste sul giardino… Da quello che possiamo toccare, come il legno caldo e il bronzo giallo, a quello che possiamo sentire a livello emotivo, non solo cognitivo. Mai dimenticare, infatti, i nostri pensieri: pensare è un processo materiale, sequenziale e, talvolta, persino qualificabile, sebbene non esattamente quantificabile. Per questo motivo diventa un flusso incredibilmente, immensamente complesso e richiede una rappresentazione attraverso un processo materiale. Anche in questa mostra l’osservazione scientifica può aver influenzato il mio processo di ricerca, di approccio alla sostanza, testando, influenzando, attraverso nozioni e teorie, il mio modo di lavorare. Ma anche la mia pratica artistica forse potrà ispirare nuovi principi, modificando quel che significa il valore dell’arte, secondo processi di pensiero individuali e collettivi.
Come i tuoi lavori sono entrati in dialogo con gli spazi interni ed esterni?
Premetto il fatto che la matematica come unica fonte di verità dell’universo mi lascia del tutto indifferente. Premesso inoltre che sono molto più interessato a scoprire come poter recepire, sentire e trasmettere le sensazioni di una giornata di bel tempo a Milano e a come la differenza di percezione dell’aria tiepida possa influenzare la nostra attitudine nei confronti dei lavori esposti, ritengo che nello spazio ogni luogo destinato a una scultura ne alteri la sua rappresentazione. Lo spazio, in qualche modo, attraverso la scultura può essere risolto. Con questo non voglio dire che io abbia stabilito scientificamente la posizione dei miei lavori, ma di certo ho cercato di comprenderne l’approccio del pubblico, i suoi percorsi di visita e quale impatto la loro prima immagine avrebbe creato su di esso.
Ho cercato di mettere in risalto, tra la galleria e il giardino, la struttura geometrica interna dei lavori e come questa possa diventare una sorta di qualità interiore umana, passando attraverso l’estetica. La sensazione che ho cercato di ricreare, attraverso la scultura, è uno stato di oscillazione fra lo stato d’animo di quando scopriamo alcune nozioni che, inconsciamente, dentro noi stessi sapevamo già di poter presagire, di poter comprendere, e invece quella predisposizione al vuoto che ci lasciano i misteri più insoluti dell’universo. Di fronte ad essi, infatti, non ci resta che credere, facendo atterrare il controllo sulla logica della geometria e dell’intelletto a un livello emotivo, organico. Ma questi due aspetti sono due lati della stessa medaglia: l’esistenza umana.
Questa personale potrebbe essere considerata una sorta di estensione formale dell’installazione in Duomo?
Quel che tendo sempre a fare, quando concepisco una nuova mostra, è trarre informazioni da quella che l’ha preceduta. E così è successo per Paradosso, posta al centro della navata principale del Duomo e ai sei gruppi scultorei posti sulle terrazze. Ritengo che qualcosa di incongruo, ironicamente parlando, sia avvenuto lassù, nell’aria, e incredibilmente il lavoro è apparso molto più fotogenico del previsto. Il panorama era davvero suggestivo e l’ambientazione storica ha reso tutto speciale.
Comunque sia, i lavori qui presentati mostrano aspetti molto differenti, rispetto al confronto al quale avevo sottoposto gli altri, per ascendenza e imponenza. Sicuramente mi sono servite per muovere un nuovo passo in avanti.
Bronzo, legno, vetro, pietra, marmo: quali messaggi e sensazioni differenti trasmettono e rappresentano questi materiali?
Ogni materiale ha le proprie sfumature espressive e persino un materiale come la carta o il bronzo, qui posti quasi in parallelo, riservano sempre nuove scoperte, nonostante intere civiltà li abbiano usati per migliaia di anni. Ogni volta ne traggo un nuovo insegnamento, specialmente dal bronzo, che è davvero instabile. In questo senso la scultura diventa una sorta di studio della materia. E oggi, non tutti i materiali che abbiamo a disposizione per creare delle forme sono così facilmente utilizzabili. Io invece adoro particolarmente quelle sostanze che ti permettono di arrivare a concepire nuove forme dell’esistenza.
Ogni materiale ha avuto, per me, per il mio percorso, il proprio ruolo. Ad esempio, i miei primi lavori erano composti di cose trovate, e non avrei potuto oggi presentare lavori di questo tipo senza prima aver plasmato quegli oggetti, che considero una sorta di compendium rispetto alle forme che realizzo oggi.
Qual è la tua opinione sulla querelle attorno alla Goccia di Siena? Qualche istituzione ti ha contattato per proporti un restauro o per studiare una nuova collocazione che la valorizzi?
Ogni mostra, ogni lavoro si completa e si sovrappone, l’uno all’altro, nel mio percorso, concatenandone le estremità, gli orli, e dunque creando legami. Non posso essere particolarmente felice delle obiezioni e delle opinioni che sono state espresse nei confronti di The Drop. All’inizio sembrava essersi creata per me una situazione, un’opportunità molto bella, e la gente sembrava interessata, responsabile verso il fatto di volere e potere ospitare un’opera d’arte contemporanea.
Ma non si può sempre avere il controllo sulle opinioni o sul rispetto altrui. Se non sono interessati, non lo saranno mai. Per me è un peccato che non riescano più a recepirla. Vorrei dunque poter riavere il mio lavoro. La mia galleria gli ha scritto per proporgli il mio supporto, ma abbiamo compreso che non avrebbe avuto senso. Quel lavoro mi appartiene e solo ri-ottenendolo potrò prendermene cura, semplicemente ponendolo in un altro ambiente, in un’altra situazione dove la gente vorrà vederlo.
Un panorama sui programmi futuri di Tony Cragg?
Avrò molte mostre nei musei, già prima della fine di quest’anno: in Quatar, ad Atene, a Istanbul, all’Ermitage di San Pietroburgo. Attualmente vivo a Bogotà e vorrei che venisse realizzata una bella mostra in uno o più dei loro meravigliosi musei. Mi aspetta anche un percorso in una Kunsthalle in Finlandia.
Ginevra Bria
Milano // fino al 17 luglio 2015
Tony Cragg
LISSON GALLERY
Via Zenale 3
02 89050608
[email protected]
www.lissongallery.com
MORE INFO:
http://www.artribune.com/dettaglio/evento/45264/tony-cragg/
Milano // fino al 31 ottobre 2015
Tony Cragg – Dialogo con il Duomo
DUOMO
Piazza Duomo
[email protected]
MORE INFO:
http://www.artribune.com/dettaglio/evento/43945/tony-cragg-dialogo-con-il-duomo/
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati