Laura Antonelli, in memoriam
Una persona semplice, timida. Una bellezza sconvolgente proprio perché quasi inconsapevole di sé: incolpevole. Uno straordinario catalizzatore per l’immaginario italiano Anni Settanta e Ottanta: generazioni di maschi nazionali avvolti da questo fascino, senza sapere perché.
“Sto male, ma non riesco a reagire”
Intervista al settimanale Chi
21 novembre 2001
Il senso autentico del “mistero” è la capacità di avvincere oltre le spiegazioni, anche al di qua di tutte le spiegazioni: questa femminilità raffinata era talmente sfuggente proprio perché è stata sempre molto più che “bbona”. Senza intellettualismi, senza sofisticherie, senza artificialità. La fronte alta, aliena, quattrocentesca. Italiana senza essere italiana (era nata a Pola, all’epoca italiana, poi non più: con Femi Benussi, Alida Valli e Sylva Koscina componeva il cosiddetto gruppo delle “bellissime quattro dalmato-istriane”: e sì, il nostro giornalismo è stato sempre maestro di definizioni semplificatorie, come tutti i giornalismi).
Il mistero, il mistero italiano è tale proprio perché sfuggente, ineffabile, evanescente come una fantasma: la bellezza di Laura Antonelli è stata un fantasma, e come un fantasma è tornato a infestare la sua padrona. Un’attrice che non voleva essere attrice, a cui il cinema non interessava più di tanto e che rifiutò addirittura le offerte dei produttori americani con un indolente e rassegnato “non me piase, non me interesa”.
Secondo il critico Tatti Sanguineti, in e di questa sua pigrizia l’attrice era anche vittima: in che senso? Nel senso – anche questo molto italiano – di un’accettazione che contiene un presagio, un annuncio, una prefigurazione. I guai giudiziari, i lineamenti deturpati, la sofferenza economica: il mito di un’età dell’oro, coincisa peraltro con gli anni di piombo dello stesso luogo fisico e psichico che l’aveva espressa, costretto a fare i conti con un altro tempo, con un altro mondo. Con l’esclusione e l’emarginazione.
E quella scena, atroce e magnifica: Laura Antonelli negli Anni Novanta che, sfigurata, vaga per le strade di Cerveteri “con un grosso crocifisso tra le mani, vestita da santona” (V. Cappelli, Laura Antonelli, la bambola rotta che odiava essere un sex symbol, “Corriere della Sera”, 22 giugno 2015).
Laura Antonelli che, ricoverata nel 1996 al reparto psichiatrico dell’Ospedale di Civitavecchia, urla: “Non cercatemi, dimenticatevi di me, non esiste più Laura Antonelli!”.
Non c’è più Laura Antonelli.
Tutti che parlano di questa straordinaria fragilità, e di questa sensualità forte come un tornado: ma il tornado è tale proprio perché fragile. Perché continuamente sul punto di spezzarsi, di infrangersi. La solitudine tremenda e dignitosissima di questa donna imperscrutabile, la grandezza del rifiuto ostinato opposto alla (finta) offerta di un minimo vitalizio: “Non voglio niente, voglio solo essere dimenticata”. Laura Antonelli non solo ci parla di un’era che non esiste più (Malizia, Sessomatto, L’innocente): ci dice anche di un’Italia sommersa, amara, antica; un’Italia con l’ossessione perenne della povertà (i genitori esuli, espatriati…), con la sensazione costante di essere fuori posto in una realtà congelata ed estranea, e che sa benissimo di non poter lenire neanche con il successo e la fama il dolore di vivere: “Forse non ero tagliata per fare l’attrice. Non ero preparata ad affrontare quella carriera, il successo, la popolarità, quell’ambiente, con le illusioni e le delusioni. Sono sempre stata una persona semplice, timida, attaccata ai valori della famiglia. Oggi, per me, esiste Gesù” (E. Serra, Laura Antonelli: cerco la pace, per me ora c’è solo Gesù, “Corriere della Sera”, 21 novembre 2001).
Christian Caliandro
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