Malta Festival 2015. New World Order
È in corso fino a fine giugno la 25esima edizione del Malta Festival di Poznan. Il più importante e longevo festival di teatro e performings arts della scena polacca riconferma l’interesse per la densità etica delle relazioni sociali attraverso una chiamata in causa della dimensione politica dell’arte, e suggerisce i contraddittori aspetti di un New World Order. Ne abbiamo parlato, a Bruxelles, con la programmatrice Kasia Torz.
Ogni edizione di Malta Festival si fonda su un “idioma”, traiettoria tematica e teorica a partire dalla quale costruite il palinsesto.
Nel 2009 Michal Merczynski, fondatore e direttore del festival, ed io abbiamo iniziato a ragionare su possibili cambiamenti nella struttura della programmazione. Il festival aveva diciotto anni di storia alle spalle e fino a quel momento non si era focalizzato su tematiche specifiche. Teatro e arti performative rappresentavano il cuore del programma, ma si trattava di un palinsesto multidisciplinare senza un focus peculiare.
Da una serie di confronti è nata l’urgenza di ripensare il festival come un evento artistico a spiccata vocazione sociale. Sentivamo quindi la responsabilità di offrire un orizzonte esteso che tenesse conto di differenti forme espressive e approcci, avendo cura di esplicitare un legame con le pratiche artistiche connesse con istanze sociali e politiche. Esperienze sensibili alle trasformazioni della realtà che ci circonda, capaci di esprimere un punto di vista, non necessariamente con un coinvolgimento politico diretto.
Nell’operare questi mutamenti non volevamo snaturare la storia del festival – un grande evento della e nella città in stretto legame con i cittadini – ma al tempo stesso sentivamo la necessità di aprire nuove piste in cui la relazione con la comunità internazionale degli artisti, con cui si era costruito un dialogo nel tempo, potesse essere ripensata intorno a un’idea, a un nodo teorico condiviso. Così nasce l’idea di pensare per Idiomi.
Una volta individuata la traiettoria tematica, la condividete con un artista che ne possa declinare aspetti e potenzialità?
Sì, esattamente. L’artista invitato lavora con noi come curatore, suggerendo spettacoli, proposizioni teoriche, traiettorie visive. Nella scelta del curatore guardiamo ad artisti o formazioni artistiche che abbiano esperienze con le problematiche dell’Idioma scelto, perché siano uno stimolo per rilanci non banali.
Tendenzialmente alterniamo Idiomi concettuali e teorici a inquadramenti e investigazioni geografiche. È stato così per gli affondi su Asia/Europa o America Latina. Abbiamo iniziato con un focus sulla scena performativa fiamminga. Ci sembrava importante raccontare in Polonia questo fenomeno capace di coniugare estetica e politica. Esemplificativa del taglio teorico è l’edizione 2013, curata da Romeo Castellucci. Il punto di partenza era la nozione di transumanesimo, che il regista ha trasformato in Oh Man, Oh Machine!, centrando l’Idioma sulla relazione uomo-macchina.
Il festival dà spazio alla discussione teorica, tra performing arts e filosofia…
Malta Festival coniuga grandi concerti, spettacoli, progetti nello spazio urbano e incontri con filosofi, studiosi di letteratura e sociologi. Questo avviene nel Forum, sezione di convegni, incontri, tavole rotonde dal taglio non accademico. Sono concepiti come momenti di discussione aperta nei quali invitiamo figure dal profilo eterogeneo che possono contribuire a penetrare le faglie suggerite dall’Idioma. Una volta concluso il festival, pubblichiamo dei piccoli libri nei quali cerchiamo di trattenere e diffondere i risultati delle riflessioni.
Idioma 2015 è New World Order. Ovvero?
La nuova edizione si interroga sulla definizione di un nuovo ordine mondiale e del ruolo dell’arte, fra utopia e distopia. Vuole aprirsi a una discussione politica, che in teatro significa indagare il linguaggio, poter vedere come pensiamo e ci posizioniamo nel mondo. Per investigare questo tema abbiamo invitato Tim Etchells. Lui ha accettato queste coordinate e ha rilanciato con proposte che agiscono su un doppio binario: da una parte promuovendo una critica dell’attuale situazione politica mondiale (a partire da parole dominanti come “terrorismo”) e dall’altra provando a investigare il ruolo dell’arte nella formazione di un “nuovo ordine mondiale”.
Il prossimo anno ci concentreremo su un tema specificamente teatrale. Vogliamo riflettere sulla creazione nello spazio pubblico, sulle sue dinamiche performative e sociali, in relazione alle figure di spettatore, testimone, attore. Si tratterà di tornare in qualche modo alle origini di Malta Festival. Ma lo faremo in modo critico, per problematizzare la questione dell’intrattenimento, l’abuso di presenza e la manipolazione del pubblico. Vogliamo capire chi è spettatore, attore o performer oggi in teatro attraverso i meccanismi d’interazione. Mi auguro che per lo spettatore possa essere un modo di riconoscersi come un attore sociale.
Tim Etchells, da oltre vent’anni, crea traiettorie sceniche a ridosso del testo, attraverso equilibri compositivi che contemplano la superfetazione del linguaggio, il distanziamento ironico, la noia, l’estenuazione del dialogo in racconti-deriva sfocati nella cornice parodica dell’affabulazione narrativa. Con questa tattica centrata sugli usi del linguaggio, mette sotto la lente le false mitologie del quotidiano, le trappole dell’ipercomunicazione, l’uso seduttivo della parola per la cattura del consenso, la retorica campione del neoliberalismo fondato sull’equivalenza individui=essere liberi, i guasti dell’industria culturale, prototipo di bacini produttivi di lavoro immateriale, di precarietà elevata a sistema. Queste istanze si trovano espresse nel palinsesto?
Quello che dici è sorprendente. Mentre ti ascolto, mi rendo conto che molti lavori in programma, in effetti, declinano questa traiettoria. Quello che è davvero interessante cogliere dalle proposte di Etchells è la differenza di estetiche e strategia applicate, che convergono però su una critica del linguaggio.
In Tomorrow’s Parties di Forced Entertainment, due performer speculano su ipotetiche realtà di domani, toccando temi banali e globali: da visioni di scienziati pazzi a diagnosi di politica planetaria. Mettono in primo piano la convenzionalità del mondo in cui viviamo, smontando presunte sicurezze. Altre performance hanno più dirette implicazioni politiche. Penso a Jerusalem cast lead di Winter Family, duo composto dall’artista israeliana Ruth Rosenthal e dal musicista francese Xavier Klaine. Dopo aver filmato e collezionato immagini e suoni delle cerimonie commemorative della storia di Israele, hanno costruito uno spaccato della società israeliana mostrandone contraddizioni e sofferenze. Si tratta di uno spettacolo semplice che indaga gli strumenti di manipolazione emotiva sugli individui. The Future Show di Deborah Pearson è, invece, una sorta di monologo sulla vita a venire. La performance è costruita a partire da quello che accadrà all’artista dal termine dello spettacolo fino al momento in cui morirà. Sera dopo sera, Pearson presenta diverse versioni di futuro, cambiando di continuo il suo testo e costruendo spazi potenziali.
Parlavi del ruolo politico dell’arte di fronte al costituirsi di un nuovo ordine mondiale. Si tratta di una questione sempre viva nel dibattuto artistico polacco, penso in particolare alle arti visive…
Sì, il ruolo dell’arte è un tema molto acceso nel dibattito culturale in Polonia. Per me si declina a tre diversi livelli: il primo agisce nei media, nelle discussioni pubbliche su investimenti e finanziamenti, sulle politiche culturali in relazione al sistema dell’arte. Ma credo che gli spettatori non siano attirati da questo orizzonte. Interessa piuttosto gli addetti ai lavori e i politici. Inoltre, i media abusano di questo piano del discorso in modo populistico.
Il secondo livello riguarda una dimensione di critica, direi “istituzionalizzata”: mi riferisco a quegli interventi artistici che investigano il sistema sul piano metadiscorsivo, producendo a volte esiti interessanti, a volte decisamente involuti e autoriferiti.
Il terzo livello riguarda lo spettatore: ha a che fare con l’essere “partecipanti”. Questo è per me l’aspetto più importante. Mi riferisco al cosiddetto “spettatore comune” che assiste agli spettacoli, che si interroga sulle questioni sollevate dall’Idioma. E Il suo coinvolgimento genera una postura nel seno della riattivazione di una corporeità collettiva.
Nel campo delle arti performative, cos’è fondamentale per te come curatrice?
Ti rispondo con un esempio che mette insieme il mio approccio e il mio desiderio: Tim Etchells ha realizzato appositamente per Malta Festival 2015 #NewWorldOrder una scritta al neon che recita NEVER SLEEP. Per me questa frase può essere letta come un imperativo del tardocapitalismo (“Devi produrre, non perdere tempo!”), ma è anche un invito a essere all’erta, attenti a quello che accade intorno a noi. In questo senso, voglio pensarlo come un appello agli spettatori!
Piersandra Di Matteo
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