Volendo tracciare una mappa delle istituzioni capofila nello specifico dell’accessibilità per persone con disabilità, meritano di essere menzionate le proposte del Metropolitan di New York, del MoMA, del Philadelphia Museum of Art e del Fine Arts Museum di Boston. Per offrire una prospettiva anche storica basti pensare che a Philadelphia, ad esempio, i primi percorsi pensati per visitatori ciechi e ipovedenti sono stati attivati quarant’anni fa e all’MFA di Boston da trentacinque.
IL CASO METROPOLITAN
Il caso del Met presenta forse una delle programmazioni per l’accessibilità più articolate e considerate eccellenti a livello internazionale. I primi documenti d’archivio che fanno riferimento all’accessibilità di questo museo risalgono addirittura al 1908 e si riferiscono alla possibilità di poter chiedere in prestito una sedia a rotelle per poter visitare il museo. Nel Bulletin of The Metropolitan Museum of Art datato maggio 1913 si riporta l’esperienza di due lezioni tenute a visitatori non vedenti, mentre risale a pochi anni dopo (1917) il primo riferimento a “lezioni per sordi”. La collezione tattile è stata messa a punto negli Anni Settanta, inaugurando parallelamente una progettualità più strutturata: sono gli anni in cui si svolgono i primi tour in lingua dei segni e le attività educative per le persone definite “the mentally retarded”. Da allora il numero delle proposte è evidentemente cresciuto; sono cambiati gli approcci e le riflessioni che hanno portato alla realizzazione di programmi importanti e frequentatissimi. Su tutti, i più famosi sono certamente Discoveries (per persone con disabilità cognitive e disturbi dello spettro autistico), Met Escape (per malati di Alzheimer e i loro caregiver) e Picture This! (per visitatori ciechi e ipovedenti).
L’eccellenza nasce da un gruppo di lavoro relativamente piccolo: tre persone fulltime con il supporto di una dozzina di educatori e altrettanti volontari. Le proposte sono differenziate ogni mese per tema, consentendo agli stessi visitatori di partecipare con continuità. L’attenzione riposta nel settore è evidente anche nella declinazione in chiave accessibile di tutti gli eventi del museo, nella prospettiva multidisciplinare e nella specifica riflessione del ruolo dell’istituzione nelle diverse fasi della vita dei suoi pubblici. La ricerca costituisce un aspetto centrale del lavoro, attraverso lo studio condotto sulle potenzialità di inclusione delle proposte multisensoriali e la collaborazione attivata con i diversi dipartimenti, in particolare il Media Lab Department. Un progetto recente, ad esempio, nato proprio da questa partnership interna, ha visto la collaborazione della Parsons The New School for Design nella progettazione di un corso semestrale sui temi dell’accessibilità museale. Dopo un periodo di formazione e confronto, gli studenti hanno potuto elaborare diverse proposte per la progettazione inclusiva. Sono molteplici, del resto, le applicazioni fra design e accessibilità spesso indagate nel corso di specifici tirocini di ricerca. È il caso di una mappa del museo che raffigura, a livelli diversi, la dislocazione di caratteristiche dello spazio che possono essere critiche (come luce, folla o rumore) o anche di un progetto online per ripensare la descrizione verbale delle immagini.
DIVERSIFICAZIONE: NEI PUBBLICI, NEI LAVORATORI
Tirocini, collaborazioni, inserimenti lavorativi: il fronte del lavoro è un altro tema chiave per quel che riguarda l’accessibilità. Sempre nel caso del Metropolitan, le competenze dello staff si sviluppano dall’integrazione di saperi diversi, includendo professionisti e stagisti con e senza disabilità allo scopo di elaborare progetti capaci di rispondere alle esigenze di tutti, senza per questo escludere frequenti proposte per l’aggiornamento continuo. L’aspetto dell’inserimento lavorativo rappresenta dunque una questione centrale, inevitabilmente considerata anche all’interno di altre istituzioni: pretendere di diversificare i propri pubblici di riferimento senza fare altrettanto nell’organizzazione del proprio personale apparirebbe una contraddizione. Per questa ragione, un recente convegno sul ruolo dei musei nell’inclusione dell’autismo (ospitato proprio al Met) ha dedicato un specifica sessione al tema. Mentre lo Smithsonian Institute di Washington promuove, all’interno dei suoi musei affiliati, un programma di tirocinio rivolto esclusivamente a studenti con disabilità cognitiva.
Ma la riflessione sulle competenze professionali nello specifico dell’arte non si esaurisce solo nell’ambito museale, incrociandosi con i temi della produzione artistica. Nonostante la discreta diffusione delle proposte di Outsider Art (diverse gallerie, musei e persino una fiera dedicata a New York), il tentativo di ripensare all’esistente distinzione del mercato dell’arte veicola la volontà di promuovere una nuova percezione della disabilità stessa. L’esempio di San Francisco è forse il più conosciuto, grazie alla presenza di tre centri (laboratorio di produzione e insieme centro espositivo) dedicati all’impiego di artisti con e senza disabilità, molto diversi fra loro per approcci, spazi e contesto urbano. Creativity Explored, Creative Growth e NIAD Art Center sono luoghi che permettono a persone con disabilità cognitiva di coltivare il proprio talento accanto ad altri professionisti. L’idea è che le opere prodotte, quando interessanti, possano circolare in un regolare mercato dell’arte senza enfasi sulla disabilità degli autori. Gli obiettivi possono essere ambiziosi e portare gli artisti a ottenere visibilità (e buone quotazioni) grazie anche al supporto di musei come il MoMA, il Berkely Museum of Art o il Brooklyn Museum (è il caso della recente mostra di Judy Scott). La volontà dei musei di fare spazio alla presenza della disabilità (in termini di produzione e raffigurazione) apre comunque nuove prospettive di inclusione, permettendo di approfondire un tema indagato in profondità anche in ambito accademico. L’università capofila di questa ricerca è certamente quella di Leicester (UK), grazie al lavoro del Research Centre for Museums and Galleries.
DIMENTICARE L’ALZHEIMER
In generale, la riflessione sulla disabilità negli Stati Uniti non è sempre lineare ma è molto articolata: ed è forse proprio questo l’aspetto più difficilmente rintracciabile. Soprattutto con riferimento all’accessibilità, nel contesto italiano è facile percepire solo riferimenti omogenei, senza cogliere il valore di un dato che è anche di natura quantitativa. È il caso delle proposte sviluppate per persone malate di Alzheimer e i loro caregiver. Riferendosi alla sola a New York, sono almeno una quindicina i musei che hanno progettato e sperimentato percorsi dedicati ai visitatori con l’Alzheimer. Il citatissimo Meet Me at MoMA (proposta estremamente strutturata e condivisa in modo brillante) non è l’unico modello. In città, anche a partire dal supporto offerto dell’Alzheimer Society, luoghi come il Metropolitan, lo Studio Museum di Harlem (attraverso Arts in Mind), The Cloisters Museums, l’American Folk Art Museum, il Rubin Museum, il Jewish Museum e molti altri hanno strutturato proposte differenti e articolate a partire dalle quali elaborare un confronto comune.
Tutte queste programmazioni condividono un approccio che è lo stesso diffuso nei dipartimenti educativi: basato quindi sull’uso dell’empatia, dell’ascolto attivo, dell’empowerment delle persone coinvolte in tutte le fasi di progetto (inclusa la valutazione). Molti progetti sono nati proprio dal confronto con le associazioni e le comunità rappresentanti della disabilità: un esempio fra i tanti è quello del Tenement Museum che, nonostante l’inaccessibilità strutturale del proprio museo dedicato alle storie dei primi migranti, è riuscito a realizzare un percorso aperto a tutti.
PAROLA CHIAVE: EMPATIA
Grande attenzione è riposta anche nella strutturazione di attività che siano adatte all’età dei pubblici di riferimento. Soprattutto gli adulti con disabilità cognitiva non sono mai trattati in modo infantile. Le proposte elaborate per i bambini sono specifiche, spesso aperte e comunque presenti in quasi tutti i musei. Esistono poi realtà dedicate all’infanzia che hanno messo a punto programmi specifici (talvolta attivi nei momenti di chiusura al pubblico generale), come accade al Chicago Children’s Museum, al Please Touch Museum di Philadelphia o al Boston Children Museum. Di quest’ultimo, una curiosità: la persona che si occupa dell’accessibilità dell’esperienza di visita è responsabile anche del benessere fisico ed emotivo dei colleghi.
Tutto questo significa riportare i musei al centro, intravedendone la necessarietà per il singolo e la collettività insieme. Non solo dunque spazio estetico, per l’apprendimento storico-artistico, di conservazione e archivio. Il museo, ripensato all’interno della cornice dell’accessibilità, si carica di ulteriori implicazioni sul fronte educativo e insieme sociale; si trasforma in un’opportunità per la riappropriazione identitaria e la discussione del presente; diventa ambito nel quale ripensare all’apprendimento quale disciplina complessa e multimodale; contesto per sperimentare e rafforzare le competenze di tutti i propri pubblici possibili. Il museo diviene il luogo nel quale cogliere una rappresentazione del mondo complessa, a partire dalla quale facilitare l’incontro reale. Invoglia a sentirsi bene con approcci, anche di natura empatica, condivisi. Ripensa alla comunicazione come disciplina nuova e insieme la insegna. Immaginare un museo accessibile significa dunque ripensare anche a questo. E questo viaggio, tra le righe, lascia intuire come qualunque museo del presente debba procedere interrogandosi anche in questa direzione.
LA SITUAZIONE ITALIANA
Anche in Italia, ovviamente, ci si occupa di accessibilità museale. Nel nostro Paese il panorama appare sicuramente meno omogeneo, perché più recente nei suoi sviluppi. Le ragioni sono complesse ma, anche in questo caso, in parte legate a un approccio museale poco orientato al coinvolgimento dei diversi pubblici, delle comunità, e insieme per ragioni normative. Qui, del resto, abbiamo iniziato a occuparci delle barriere architettoniche solo a partire dagli Anni Sessanta. E se pure quello all’accessibilità è un diritto sancito per legge (la prima risale al 1971), non esistono soluzioni standardizzate. Il rispetto della disciplina troppe volte sembra demandato alla sensibilità delle singole istituzioni, non solo sul fronte dell’accessibilità fisica ma soprattutto quella sensoriale e cognitiva.
Nonostante questo, negli ultimi cinque anni si è assistito a una crescita significativa dei musei interessati a questa riflessione. La Commissione Accessibilità di ICOM – International Council of Museums porta avanti da tempo una mappatura dei musei coinvolti proprio per inquadrare le dimensioni di questo fenomeno. Un quadro generale della materia, infatti, non è ancora stato tracciato, ma quello che sicuramente emerge è la tendenza a sviluppare gradualmente singole proposte rivolte a specifici gruppi. Sono pochi, infatti, i musei che presentano una offerta accessibile articolata sia sul fronte espositivo che delle attività didattiche per visitatori con disabilità fisiche, sensoriali e cognitive. L’accessibilità globale resta ancora un miraggio.
Di certo, però esistono molte istituzioni d’eccellenza che tentano da tempo di promuovere modelli di coinvolgimento inclusivo. È il caso del Museo Tattile Statale Omero di Ancona: esempio riconosciuto internazionalmente, è nato nel 1993 e presenta una ricca collezione interamente tattile; oppure del Galata Museo del Mare di Genova, dove l’articolata progettazione per l’accessibilità si è sviluppata in concomitanza con il protocollo d’intesa fra Regione Liguria e MiBACT proprio sull’accessibilità dei principali siti culturali; e ancora, il Museo Anteros di Bologna, realtà storica nata dalla volontà di promuovere percorsi tattili per vedenti e non vedenti. Altri esempi: le attività di Palazzo Strozzi a Firenze, il lavoro dei Musei Civici di Brescia, le innovative proposte per l’inclusione del MAMbo a Bologna, i progetti multisensoriali del Museo Nazionale Archeologico di Aquileia, i nuovi percorsi in LIS a Venezia (nati da una collaborazione fra Soprintendenza, Musei Civici e Università)… Il discorso sull’accessibilità riguarda d’altra parte i musei intesi in senso lato: lo testimonia, ad esempio, il progetto Percorsi che ha reso accessibile l’area del Palatino e del Foro Romano.
Quello dell’accessibilità museale è un settore che non ha confini netti, soprattutto in un Paese come il nostro, associabile a un museo diffuso. In questo caso l’attenzione all’accessibilità può essere condivisa a livello territoriale, come dimostra il recente caso di Matera. Eletta Capitale della Cultura 2019, la città ha ospitato lo scorso settembre una due giorni nazionale sull’accessibilità che ha portato alla formulazione di un documento di sintesi (il Manifesto di Matera) subito adottato dalla città lucana. Anche il caso di Torino è significativo in termini di sviluppo della rete territoriale. A partire dalla costituzione del Tavolo di Confronto culturaccessibile (formato da rappresentanti istituzionali, operatori museali, associazioni ed educatori) è stato elaborato il Manifesto della Cultura Accessibile. Il documento, datato 2010, è nato allo scopo di rilanciare un confronto tuttora aperto sul fronte nazionale. Sempre in termini di lavoro di rete, in questo caso orientato alla ricerca, non si può non citare il Laboratorio per l’Accessibilità Universale del Comune di Buonconvento, nato per volontà dell’Università di Siena, o i sempre più numerosi corsi universitari che includono workshop o momenti di formazioni specificamente dedicati all’accessibilità.
In generale, dunque, verrebbe da essere ottimisti, anche se alle volte resta il dubbio che si tratti solo di una tendenza. Se il museo deve essere spazio di tutti, andrebbe maggiormente approfondita la questione del coinvolgimento di tutte le comunità possibili, e non solo delle persone con disabilità. Questa sì che sarebbe vera inclusione.
Maria Chiara Ciaccheri
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #24
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