Storia di Carla Pellegrini e della Galleria Milano

Da cinquant’anni è titolare della Galleria Milano. Lo spazio è l’esatto contrario di un white cube, a pochi passi dalla Ca Brütta, uno degli edifici più importanti di Giovanni Muzio, e a un tiro di schioppo da Brera. I soffitti sono stati affrescati da Andrea Appiani, agli inizi dell’Ottocento. Nonostante le premesse, l’atmosfera che si respira è tutt’altro che museale.

Come inizia la storia della Galleria Milano?
La galleria ha riaperto in via della Spiga nel 1964. Era stata fondata con questo nome da Enrico Somarè negli Anni Venti e aveva chiuso i battenti poco prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale. Così nel 1964 i due figli di Enrico, Sandro e Guido, hanno pensato di riaprirla insieme ai pittori Aldo Bergolli, Mario Rossello e Gianni Dova. Il 21 maggio di quell’anno hanno inaugurato la prima mostra con le loro opere. Li finanziava la moglie di Sandro, Luciana Momigliano, ed era diretta da Lella Russoli, la moglie di Franco, il soprintendente di Brera. Ma già l’anno successivo i due si sono separati e lui è venuto a stare a casa mia, dove vivevo con mio marito e i miei figli.

Tu cosa facevi allora?
Abbandonato l’insegnamento di lingua e letteratura tedesca, lavoravo in una società fondata da un personaggio straordinario, Dino Gentili. Il suo progetto riuniva, appunto, in una grande società alcune tra le più importanti aziende industriali pubbliche e private per favorire le loro esportazioni di manufatti e materie prime verso Paesi come la Cina e l’India, che lavoravano in compensazione. L’India aveva proposto a Gentili di includere nello scambio i prodotti artigianali, così lo stesso mi aveva assunto perché mi occupassi di questo aspetto. La motivazione che Gentili mi aveva dato era questa: “Ti piace viaggiare, parli le lingue e hai buon gusto”.

E in galleria come ci sei arrivata?
Una volta andata via sua moglie, Sandro aveva deciso di continuare a tenere aperto lo spazio e ha chiesto a me e a mio marito, grande appassionato d’arte, di diventare suoi soci. Abbiamo accettato. In seguito Sandro se n’è andato e siamo rimasti da soli.

Quando ti sei trasferita nell’attuale sede?
Nel 1973.

Alik Cavaliere - Galleria Milano

Alik Cavaliere – Galleria Milano

Partiamo dall’inizio. Avete fatto molte cose…
Nel 1965 abbiamo dedicato una mostra all’Art Déco. Abbiamo esposto Titina Maselli, Agenore Fabbri. Nell’aprile del 1966 abbiamo inaugurato London Under Forty , con opere, fra gli altri, di Allen Jones, Bridget Riley, Joe Tilson: era la prima volta che si proponeva una collettiva sulla Pop Art inglese in Italia. L’ho fatta con Luca Scacchi Gracco, recentemente scomparso, che ha portato quel movimento nel nostro Paese. Un mercante e uomo di cultura che ci ha introdotti a Francis Bacon, ma anche a Egon Schiele.
Un’altra importante mostra è stata quella del 1969, intitolata Six West Coast Artists, in cui c’erano le opere di Billy Al Bengston, Joe Goode, Graham, Ed Moses, Kenneth Price, Ed Ruscha. In quello stesso anno anche Beatrice Monti e Giorgio Marconi hanno fatto rassegne sulla Pop Art inglese. Nel 1967 ho fatto una grande mostra su Luigi Veronesi con la pittura, la fotografia, la grafica e più tardi ho esposto i suoi studi sul rapporto musica e colore. Sempre nel 1967, intorno a Natale, ho esposto le opere Alastair: era un tipo strano, il suo vero nome era Hans Henning von Voigt, era un barone e diceva di essere figlio di una principessa spagnola e di Edoardo VII di Inghilterra.

Raccontaci…
Faceva dei disegni bellissimi, quasi cattivi. Alla fine della mostra mi ha mandato un laconico telegramma, in cui mi chiedeva di consegnare le opere non vendute a chi si sarebbe presentato da lì a breve. E così è stato. Era un personaggio molto misterioso, probabilmente appartenente da giovane al gruppo dei Rosa Croce, dal quale è stato cacciato e dal quale era perseguitato. Mi ha ricevuto, durante l’organizzazione della mostra, in una camera di una pensione a Monaco di Baviera, dove viveva. Stava già male ed era a letto con un pigiama di seta a grandi pois, con le dita piene di anelli. Era un gran signore. Aveva conosciuto un mondo indubbiamente affascinante che non esisteva più.

Nel 1970, Fontana era morto da due anni, gli hai dedicato un’importante mostra. Dieci anni dopo hai proposto una rassegna dedicata a una parte poco nota del suo lavoro: i suoi disegni di architettura e i progetti per gli allestimenti con i neon. Lo hai conosciuto? Che tipo era?
Insieme a Nanni Valentini, al quale nel tempo ho dedicato cinque mostre, è la persona più generosa che io abbia conosciuto nel mondo dell’arte. Quando ho fatto la mostra Nuove ricerche visive in Italia, nel 1966, Fontana mi ha mandato una grande opera, che era pubblicata sulla sopracoperta del libro di Guido Ballo. Era simpatico, spiritoso. Frequentava la galleria assiduamente.

Stamp Out Art nel 1971 era una mostra sui francobolli degli artisti inglesi…
In Inghilterra in quel periodo c’era uno sciopero delle poste, durato oltre due mesi. La regina, per tutta risposta, aveva tolto il monopolio, affermando che ognuno avrebbe potuto fare il proprio francobollo e consegnare la posta. Tutti gli artisti, da David Hockney ad Allen Jones, hanno fatto il loro francobollo firmato, e anche parecchi scrittori. Tutti i soldi che hanno ricavato sono stati destinati alle Union. Io acquistai dieci serie di questi francobolli, secondo me bellissimi, e ho fatto la mostra. In catalogo avevamo pubblicato anche la lettera della regina.

Nel 1969 la tua galleria ha ospitato Irritarte. Appunti per un’analisi delle comunicazioni irritanti. Un titolo che balza all’occhio.
Era una mostra curata da Lea Vergine, amica di una vita, dedicata a Marco Ferreri. Era una denuncia del periodo angosciante che l’Italia stava vivendo: piuttosto agghiacciante. C’erano opere di Tetsumi Kudo, Otto Muehl, Gianni Pisani, il film Costretto a scomparire di Gianfranco Baruchello.

Carla Pellegrini con Lea Vergine

Carla Pellegrini con Lea Vergine

Negli anni hai dedicato parecchio spazio anche al cinema d’artista. Una scelta piuttosto rara nel nostro Paese.
L’interesse è partito proprio in occasione di Irritarte con il lavoro di Baruchello.

La tua galleria, nel corso degli anni, ha anche avuto un esplicito impegno politico: i proventi di Croce Nera Anarchica, nel 1972, andarono alla famiglia del ferroviere Pino Pinelli, caduto misteriosamente da una finestra della questura di Milano. Cosa c’era in mostra?
Tutti gli artisti della galleria e non solo avevano dato delle opere. Così è stato anche con Riffa nei primi Anni Settanta, che abbiamo fatto alla Permanente: l’incasso è andato agli operai che l’Innocenti aveva messo in cassa integrazione.

Avete organizzato anche un concerto?
Sì, ha suonato anche Maurizio Pollini. Fino al ’75 circa era bello stare in galleria, la sera si discuteva di politica, di arte, di cultura in generale: era un vero e proprio laboratorio di idee.

Nel 1972 avete fatto una rivista, Artemilano. Vi partecipavano sette gallerie.
Erano Studio Marconi, l’Ariete, la Galleria del Levante di Emilio Bertonati, il Naviglio, Schwarz, l’Annunciata, e noi con la Galleria Milano.

Qual era il collante?
Eravamo sette gallerie della stessa zona, la rivista era diretta da un giornalista professionista, Valerio Riva. Adesso, in occasione di Expo, ne abbiamo fatta un’altra edizione. Siamo sempre in sette. Della vecchia guardia siamo rimasti solo io e Marconi. I nuovi sono Lorenzelli, Tonelli, Mudima, Visconti, Blu. In copertina c’è la mappa della zona.

Nel 1970 hai fatto Arte Concezionale.
L’ha chiamata così Antonio Calderara, che prima voleva chiamarla Arte Concettuale, ma non c’entrava nulla, allora ha scelto “concezionale”. Era una mostra di pittura: fra gli altri c’erano Raimund Girke e Rainer Jochims.

Mitologie Individuali è il titolo della mostra che hai dedicato ai disegni dell’avanguardia tedesca, con i lavori di George Baselitz, Sigmar Polke, Blinky Palermo, Joseph Beuys, Hanne Darboven, Jörg Immendorf. Perché questo titolo?
Mi pareva che ognuno di loro andasse avanti senza preoccuparsi di quanto gli stava intorno. Erano come delle forme di utopia.

Sei forse l’unica che ha esposto Blinky Palermo in Italia. La tua conoscenza del mondo tedesco ti viene anche dalla tua formazione?
Certo. Sono arrivata in Germania trentenne, parlavo e parlo il tedesco molto bene perché sin dalle elementari ho fatto scuole tedesche. I musei mi aprivano le porte con una certa facilità.

Carla Pellegrini

Carla Pellegrini

Facendo un passo indietro: il disegno è sempre stato un tuo interesse precipuo. Come ha risposto il mercato a questa tua scelta?
Il mercato in grande non ha risposto, anche se io ne ho venduti molti a collezionisti colti, raffinati. Normalmente il pubblico ha paura del disegno, ha paura che si rovini, che deperisca. Qualcuno, però, li compra, anche se meno che all’estero.

Le tue scelte, fatte in tempi non sospetti, sembrano segnalare che hai avuto ragione. Ti sei occupata di artisti apparentemente difficili, che il passare del tempo però ha premiato: Gianfranco Baruchello, Fabio Mauri, Vincenzo Agnetti, Antonio Calderara, Franco Vimercati, che in quegli anni viveva in assoluta solitudine, compreso da pochissimi.
Dimentichi Ed Ruscha, al quale ho fatto una personale nel 1974! Quando ho partecipato con alcuni miei artisti a una mostra al Moderna Museet di Stoccolma, il direttore mi ha fatto i complimenti per averlo esposto ben prima che lui stesso lo conoscesse.

A cosa devi la tua straordinaria capacità di scelta? Hai un occhio assoluto? O cos’altro?
In realtà ho fatto anche scelte sbagliate. Quando decido di lavorare con un artista è perché mi sono innamorata del suo lavoro. Se durante una mostra continuo a guardare le opere, giorno dopo giorno, quando entro in galleria al mattino, allora vuol dire che ho fatto una scelta che mi corrisponde.

A partire dagli Anni Novanta hai iniziato a lavorare con l’architetto di carta russo, Alexandr Brodskij, che con una sua opera straordinaria ha vinto nel 1999 il premio per il nuovo museo di arte contemporanea alla Bovisa. Il museo non è mai stato fatto, ma l’opera è fortunatamente rimasta e l’anno scorso l’abbiamo rivista con grande piacere al Museo del Novecento.
L’ho conosciuto tramite mio figlio Nicola, che viveva a Londra e studiava alla Architectural Association School. In quel periodo era assistente dell’architetto Raoul Bunschoten. Per lui è andato in Olanda, dove ha conosciuto Brodskij, che stava facendo la sua prima mostra in Europa. Nicola è rimasto molto colpito e, una volta tornato in Italia, continuava a parlarmi di lui.
Mi sono incuriosita e sono andata a Mosca a conoscerlo: anche per me è stata una rivelazione. Ero ospite sua. Lui è sia architetto che artista. Il suo lavoro è di grande poesia. È incredibile ma non sono mai riuscita a fargli un catalogo perché cambia spesso idea, è totalmente assorbito dal suo mondo, dalle sue ricerche.

In cinquant’anni non si può dire che tu abbia seguito le mode imposte dal sistema dell’arte. Nel 1987 hai dedicato una mostra al Concettuale in Italia, quando più nessuno se ne curava, nel 1999 ti sei occupata di un artista troppo spesso dimenticato, Alberto Martini, che oggi, però, abbiamo visto nella mostra dedicata alla grande guerra al Mart di Rovereto. Ma questi sono solo alcuni esempi.
Un altro artista per certi versi dimenticato sul quale ho molto lavorato è Carlo Alfano: ora probabilmente riuscirò a fargli altre due mostre, anche fuori dalla mia galleria.

I titoli delle tue mostre sono affascinanti: Scompare il Nome Rimane la Cifra, nel 1979, L’Inutilizzabile e l’Irrealizzabile nel 1990…
Le ho fatte con Vincenzo Ferrari, un artista del quale sono stata molto amica. La seconda è una mostra sull’utopia.

Verrà la primavera - Galleria Milano

Verrà la primavera – Galleria Milano

Negli Anni Sessanta Milano era una città con un panorama artistico straordinario. Che gallerie frequentavi?
Andavo spesso all’Ariete di Beatrice Monti, ma anche da Arturo Schwarz, che ci ha fatto conoscere i dadaisti, da Emilio Bertonati, dal quale ho imparato molto sull’arte tedesca della Repubblica di Weimar. Passavo alla Blu di Peppino Palazzoli. Avevo una grande stima di Guido Le Noci della Galleria Apollinaire, anche se ci andavo di meno.

Hai nostalgia di quella città?
Sì, molta. Era una grande città. Beatrice Monti ha esposto gli americani prima che diventassero famosi, Le Noci ha presentato i Nouveaux Réalistes che Pierre Restany ha deciso di proporre in Italia e non a Parigi. Al CIMAC c’era Mercedes Garberi, che era bravissima. Sino a tutti gli Anni Ottanta Milano è stata una città significativa a livello internazionale.

Nel corso degli anni hai lavorato con alcuni critici molto importanti: possiamo fare qualche nome?
In primis Lea Vergine e quindi Guido Ballo, Gillo Dorfles, Patrick Waldberg, Pierre Restany, un uomo geniale, con il quale ho passato molte ore seduta al tavolo del mio ufficio, uno di fronte all’altro. Con lui abbiamo fatto una mostra in Corea. Giulio Carlo Argan ha presentato la prima mostra di Calderara in galleria.

Mi rendo conto che riassumere è sempre complesso: proviamo, secondo la tua esperienza, a fare un bilancio del mercato dell’arte in Italia negli ultimi cinquant’anni.
Il mercato è completamente cambiato, i collezionisti che comprano le cose per amore li conti sulle dita di una mano, i galleristi con i quali ti piace lavorare anche. Il pubblico comune non viene più a parlare d’arte. A me dicono spesso che faccio un lavoro di nicchia, in realtà faccio quello che mi piace, che voglio approfondire e non ho certo intenzione di cambiare. Oggi fare il gallerista è diventato un lavoro noioso e faticoso, ci si occupa troppo di conti, di burocrazia a discapito dell’arte.

Angela Madesani

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #23

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Angela Madesani

Angela Madesani

Storica dell’arte e curatrice indipendente, è autrice, fra le altre cose, del volume “Le icone fluttuanti. Storia del cinema d’artista e della videoarte in Italia”, di “Storia della fotografia” per i tipi di Bruno Mondadori e di “Le intelligenze dell’arte”…

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