Biennale di Venezia. L’opinione di Stefano Raimondi
Per meglio capire un qualsiasi oggetto, la cosa migliore è paragonarlo a oggetti simili. Ad esempio, i mondi di Okwui Enwezor in cosa differiscono da quelli che, sempre alla Biennale di Venezia, proponeva Daniel Birnbaum nel 2009. In estrema sintesi: l’artista si è mutato da creatore a reporter.
I MONDI DI DANIELE BIRNBAUM
Sembrano passati decenni e invece era il 2009 quando la Biennale di Venezia, per mano di Daniel Birnbaum, ci accompagnava alla scoperta della capacità creativa di Fare Mondi, ossia di produrre, attraverso il linguaggio e la ricerca artistica, una moltitudine incontenibile, imprevedibile e rigogliosa di possibilità.
Making Worlds, così titolava la 53. edizione della Biennale di Venezia, non solo ci diceva che l’universo era in espansione, ma che c’era la possibilità di creare una serie pressoché infinita di nuove genesi artistiche. L’artista era il creatore indiscusso di questa moltitudine di mondi nuovi che, in parte infinitesimale, erano presentati nelle sale dell’Arsenale e dei Giardini di una città come Venezia, che per sua natura è quanto di più vicino possibile a un gesto incosciente e magnifico di creazione.
UNA BIENNALE IN APNEA
Dopo pochi anni e sotto la regia realista di Okwui Enwezor, la parola ‘mondo’ ritorna alla Biennale e il titolo è già una sentenza: All the World’s Futures.
“Tutti i futuri del mondo” suona come il titolo di un film apocalittico, ma di spazio per la fantasia ce n’è davvero poco. Sembra che tutti i mondi fatti nel 2009 siano svaniti, che l’universo si sia improvvisamente arrestato e, anzi, che non solo non sia in espansione ma stia implodendo; ogni cosa, per riprendere la frase dell’opera di Adrian Piper, sarà spazzata via. Tant’è che tutti i futuri del mondo sono racchiusi in qualche migliaia di metri quadrati.
La natura claustrofobica e disorientante è resa benissimo negli spazi dell’Arsenale ma, più in generale, la densità di argomenti che si vanno a toccare rischia di schiacciare questa mostra in un’apnea che potrebbe rivelarsi troppo profonda se affrontata senza un adeguato allenamento.
L’ARTISTA: DA CREATORE A REPORTER
Probabilmente era dalla serie di eventi organizzati durante la Biennale di Venezia nel 1974, dedicati alla libertà per il Cile e alla protesta contro la dittatura di Pinochet, che non si vedeva una Biennale così politica o così socialmente impegnata, per chi vuole vedere una differenza tra i due termini.
Questa edizione sembra una presa di coscienza rassegnata, che proietta il presente nel futuro, come se il pendolo della storia non potesse in alcun modo essere deviato dalla sua traiettoria. E così all’artista creatore è subentrato l’artista reporter che, letteralmente, porta indietro o trasmette un flusso di informazioni già esistenti. E siccome nel mondo dell’informazione “bad news is a good news”, la Biennale non si lascia mancare quasi nulla, ricordandoci che il mondo non è un posto felice a tutte le latitudini e riprendendo gli svariati conflitti in cui è, siamo, immersi.
UNA BIENNALE GIÀ FINITA
Il clima cupo e pessimista di questa edizione è stato già ampiamente evidenziato, tanto che sia all’Arsenale che ai Giardini non fai nemmeno a tempo a iniziare che è già tutto finito (Fabio Mauri) e siamo già tutti morti (Adel Abdessemed, Bruce Nauman).
Il cuore della Biennale è sicuramente l’Arena, dove tra molte altre cose l’artista inglese Isaac Julien dirige e recita dal vivo tutti e tre i volumi del Capitale di Marx per tutti i sette mesi della mostra. Un’azione che trasforma il testo in un mantra, finendo per svuotarlo del suo significato. Sicuramente, come risvolto oscuro al messaggio anticapitalista che è abbastanza evidente, questa Biennale sottolinea ancora con più forza come, paradossalmente, il binomio crisi–arte attivi numerosi linguaggi artistici. Quasi che, in questa edizione, senza il primo termine non sussisterebbe il secondo.
IPOCRITA? NO, PARZIALE
Non credo che sia il caso di definire, come è stato fatto da parte della stampa internazionale, questa Biennale “ipocrita”, perché mentre mostra in tono apocalittico i mali del mondo è sostenuta da un circuito esclusivo e alla moda. Penso, più semplicemente, che sia una Biennale volutamente senza gioia e senza meraviglia, in cui il vocabolario visivo è ripetitivo e arido, ridotto all’osso, proprio come i teschi che non si finiscono mai di contare, gli edifici distrutti, le bandiere raffazzonate, le piante in via d’estinzione, le armi.
Tuttavia, essendo opere simboliche, la ripetizione rischia di riempirle di rumore e svuotarle di contenuto. Ma questa è evidentemente una scelta voluta e coerente all’interno dell’impostazione molto forte e leggibile abbracciata dal curatore. Una scelta che sicuramente non rispecchia tutti i futuri del mondo e nemmeno tutti i presenti, come risulterebbe evidente se si volesse creare un dialogo con l’altra “ennale” parallelamente in corso al New Museum di New York, co-curata da Lauren Cornell e dall’artista Ryan Trecartin, la triennale dal titolo Surround Audience.
Stefano Raimondi
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