Chi ha paura di Ai WeiWei? Dal regime cinese ai suoi cortigiani occidentali
Potrà anche non convincere qualcuno, per via del suo lavoro. Ma le critiche rivolte al suo attivismo politico nascondono strane connivenze: Ai WeiWei non piace al regime cinese, ma nemmeno a tanti che in Cina hanno interessi economici
Il governo inglese ha negato ad Ai WeiWei il visto di sei mesi, concedendolo per soli venti giorni. Motivo della restrizione è l’aver omesso nella sua richiesta di aver ricevuto una “condanna criminale”. Condanna che Ai Weiwei, di fatto, non ha mai avuto, nonostante sia stato detenuto nel 2011 per 81 giorni. Tutto si è poi risolto con una multa di circa 2,4 milioni di dollari per evasione fiscale, addebitata alla sua società; ma il reato, com’è noto, non è stato mai provato. Non c’è oggi giornale occidentale che non evidenzi come alla base del negato visto semestrale ci sia il tentativo delle autorità britanniche di ricucire i rapporti con la Cina dopo le proteste per la visita del Dalai Lama nel 2012. Sempre sulla stampa occidentale si legge che il presidente Xi Jimping è atteso a Londra a ottobre e che all’ordine del giorno ci sono gli scambi commerciali tra i due paesi. Per farla breve, a definire l’andamento di questa vicenda sono gli interessi economici e politici del Regno Unito.
Da anni ripeto che alla base degli attacchi che giungono ad Ai Weiwei da alcuni critici e, ahimé, anche da artisti occidentali importanti, ci sono gli interessi personali di chi vuole ingraziarsi il potere politico cinese o di chi in Cina non vuole avere problemi con l’apparato burocratico. Non si può certo fare di tutta l’erba un fascio, ma credo sia così nella maggior parte dei casi.
Questo non significa che l’essere diventato un simbolo nella lotta per la libertà di espressione e per i diritti civili in Cina renda Ai Weiwei esente da critiche sul piano artistico: la sua condizione di perseguitato politico non rende necessariamente interessante il suo lavoro sul piano formale. Ma non è un caso che egli venga attaccato sul piano personale e che l’accusa ricorrente sia di essere un furbo che si fa pubblicità sfruttando la sua condizione di attivista (Ai Weiwei non si è mai dichiarato un dissidente).
I regimi, come le mafie, hanno sempre combattuto i personaggi scomodi denigrandoli, distruggendone l’immagine sul piano etico. Ai Weiwei è stato accusato di essere un evasore fiscale, reato che in Cina, contrariamente a quanto accade da noi, è considerato gravissimo. Eppure questo non è bastato a screditarlo agli occhi degli stessi cinesi, che in tanti lo hanno sostenuto. In breve: se degli opportunisti ci sono, questi vanno cercati tra chi in maniera pretestuosa ha accettato di denigrare Ai Weiwei, nella speranza di ricavarne pubblicità in loco e qualche beneficio personale in Cina.
Demetrio Paparoni
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati