Fluxus è morto? Viva Fluxus!
Una serata-performance-concerto tenuta alla Galleria La Giarina di Verona in omaggio al collezionista e mecenate Francesco Conz. Una ventina di “azioni” che hanno portato in scena lo spirito paradossale, bizzarro, contraddittorio di Fluxus. E una questione di fondo: Fluxus è archeologia o si perpetua nel tempo?
TUTTO È ARTE, TUTTI SONO ARTISTI
Utopia, desiderio, sogno, gioco, beffa. Fluxus non è un movimento, è un’idea, un modo di vivere, un modo di creare. “Tutto è arte e tutti possono esercitarla”, afferma George Maciunas, l’ideatore e il teorico di Fluxus. Niente regole, niente limiti disciplinari, niente gerarchie. L’obiettivo è aprirsi al reale, per inglobarlo, per identificarsi con esso; è “lasciare che le cose siano quello che sono” (John Cage): un fatto indeterminato, discontinuo, espanso; un materiale povero, un frammento, un gesto gratuito.
Si tratta in qualche modo di un autentico azzeramento del linguaggio: la poesia che torna al valore di parola, il teatro al senso del corpo, il cinema ai meccanismi di montaggio, la musica alla purezza del suono. Ogni espressione artistica, cioè, pare vivere e affermarsi all’interno della propria negazione: farsi “non arte”, puro divertimento, al pari delle feste popolari, dei circhi della Roma antica, delle fiere medievali, degli spettacoli barocchi.
FLUXUS E FUTURISMO: GEMELLI DIVERSI
Fluxus non ha mai evidenziato un rifiuto o una reazione nei confronti della tradizione, casomai un superamento del concetto stesso di “opera d’arte” come valore riconosciuto (con evidente riferimento al ready made duchampiano). Volendo, lo si può avvicinare al vitalismo e alla “volontà di cambiamento” del Futurismo. Con la differenza che nel grande movimento del primo Novecento l’attenzione era rivolta alla rappresentazione del dinamismo tecnologico e industriale della civiltà moderna, mentre Fluxus guarda alle dinamiche del villaggio globale, alla megalopoli del futuro, dove il ruolo dell’uomo non è più legato alla fatica del lavoro, ma al tempo libero. Un quotidiano che porta a rinunciare al possesso di se stessi, all’unità della personalità: non più un sé vero e proprio, ma diverse versioni di ciascuno, a seconda dei ruoli sociali che egli svolge; tanti individui potenziali in uno, tanti mondi in una sola terra.
È per questo che Fluxus scavalca il limite dello spazio istituzionale (quadro e galleria) e diviene lo spazio della comunicazione sociale, collegando realtà diverse e lontane fra loro. È per questo che unisce in un intreccio di rapporti e contaminazioni poesia, pittura, musica ecc. senza alcuna soluzione di continuità.
FLUXUS: VIVO O MORTO?
Se si può porre il 1962 come data della sua nascita (con il Festival Musicale di Wiesbaden), si può ipotizzare una sua conclusione? Certo il periodo leggendario si è chiuso con la morte del fondatore Maciunas, avvenuta nel 1978. E retrospettive come quella di Bloomfield Hills (1981), di Wuppertal (1982), Ubi Fluxus ibi Motus di Venezia (1990) hanno cercato di ricostruire le fasi salienti, di rievocare personaggi ed episodi di quella che è stata definita “arte totale”.
Ma è davvero possibile storicizzare, archiviare esperienze che hanno perseguito come fine l’effimero, la casualità, l’aleatorietà? È possibile celebrare anzitempo un fenomeno ancora vivo e soprattutto fondato sul cambiamento continuo, sul fluire provvisorio di materiali e comportamenti? Ken Friedman ci tiene a puntualizzarlo: “Il fatto che Fluxus sia storia non significa che sia morto. Se esso è, in fondo, una sensibilità, uno stato d’animo, è forse più vivo che mai”. E con un accento che sfiora il paradosso, Emmett Williams arriva ad affermare: “Fluxus non è stato ancora inventato”. È vero: molti dei protagonisti non ci sono più, molti hanno i capelli bianchi. Non ci sarà più chi stende interminabili elenchi e itinerari e diagrammi e grafici come faceva Maciunas; non ci sarà più Charlotte Moorman che “suona” il corpo di Nam June Paik come fosse un violoncello o Joe Jonas che s’inventa strumenti musicali, facendoli funzionare meccanicamente…
Ma Fluxus è come una miniera di idee, pensieri, azioni che scavalca il tempo e diventa una proposta globale, estetica ed esistenziale, un linguaggio che non ha ancora terminato il suo discorso e che continua a influenzare movimenti ed artisti. Tagliare un tronco forse ha condotto alla Land Art, utilizzare una parola come materiale forse ha portato all’Arte Concettuale, il corpo a corpo con un pianoforte forse ha dato origine all’arte comportamentale. E ancora oggi lo spirito Fluxus sembra perpetuarsi in quella interdisciplinarità che connota le ultime generazioni.
AZIONI FLUXUS A VERONA
Ma cosa accade se si riprende e si “rivisita” qualche azione (o partitura) del repertorio classico di Fluxus, come è accaduto in una serata tenuta alla Galleria La Giarina di Verona? Non si tratta di una mera replica di performance note, ma di un modo per ripensarle, “rivederle”, reinterpretarle: si tratta di aprire nella banalità dei giorni un susseguirsi spiritoso e ilare di ammicchi, traslati linguistici, doppi sensi e doppi giochi.
I nomi degli artisti coinvolti nel progetto? George Maciunas, Philip Corner, Yoko Ono, Emmett Williams, Mieko Shiomi, Giuseppe Chiari, George Brecht, Alison Knowles, Ben Vautier, Ken Friedman, John Cage. A interpretare le varie azioni Mauro Dal Fior, un “poeta totale”, come lui ama definirsi. Lo fa con un’aria serissima e insieme leggera. Affronta Solo for Conductor di Maciunas come fosse un attore comico del cinema muto. Entra in scena, fa un profondo inchino al pubblico. Ma poi rimane piegato, compiendo i gesti più inutili e assurdi: si pulisce le scarpe, si spolvera il fondo dei pantaloni, se li tira su per vedere le calze. Non c’è un vero evento, non c’è una vera conclusione. Poi è la volta di Drip Music di George Brecht, con un Dal Fior indaffarato a versare dell’acqua in alcuni recipienti, a diverse velocità e altezze, come volesse far “sentire” l’enigma del suono. A seguire assume la malizia di un mago (in Magic Trip n. 7 di Ken Friedman): estrae da un barattolo un foglio con la scritta FLUXUS. Lo strappa, lo rimette nel barattolo, scuote il tutto ed estrae la scritta THE END.
In altre azioni il pubblico stesso è invitato a partecipare all’irriverenza del gioco: a gonfiare palloncini e a creare strani rumori sgonfiandoli, a leggere a voce alta un articolo qualsiasi di giornale, suscitando una sorta di babele di lingue, a produrre con lo stesso giornale uno stropicciare confuso. Il pubblico non è più solo spettatore, ma anche protagonista, non più solo osservatore, ma anche “azionista”.
Infine si esce dalla galleria e viene eseguito nel cortile 4’ 33’’ di John Cage, dove il silenzio, ossia il non-suono, permette l’unione di tutti i suoni: il fruscio delle piante, il mormorio del pubblico, il passare delle auto in strada, il cinguettio degli uccelli. Solo che l’esecuzione viene fatta con un flauto invece che con il consueto pianoforte. Ma anche molte altre azioni sono realizzate con strumenti poveri, approssimativi. L’esecuzione però è stata efficace così, perchè di Fluxus non si può fare archeologia. Sarebbe un po’ come per i discorsi di Socrate: volerne dare una versione definitiva sarebbe tradirli.
OMAGGIO A FRANCESCO CONZ
La serata è stata titolata FluxCONZert: un omaggio alla figura di Francesco Conz, a cinque anni dalla sua morte. A Conz, uno dei mitici collezionisti italiani di Fluxus (assieme a Beppe Morra, Rosanna Chiessi, Gino di Maggio, Caterina Gualco, Luigi Bonotto…), che non è stato solo un raccoglitore di tesori, ma anche un artefice di incontri, uno sponsor che ha reso possibili performance, azioni, concerti, con le modalità di un “vero e proprio mecenate del XX secolo”, come ha scritto Patrizio Peterlini. Il tutto documentato da un archivio sterminato, praticamente impossibile da ricostruire storicamente.
La sua era una passione che superava le ragioni del mercato e che mirava alle sole ragioni del bello. Tante, infinite, “invisibili”. Edizioni, documenti, resti di qualcosa di misterioso, indecifrabile, illimitato. Come le pubblicazioni di Maciunas, l’artista lituano che avrebbe voluto stampare “con un inchiostro che spariva con il tempo”. Così è Fluxus: continua a vivere anche al di là della sua visibilità, perché è respiro, battito, sangue che scorre nel segreto delle vene.
Luigi Meneghelli
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati