Henri Matisse messo a nudo. L’intervista perduta
Aveva 72 anni, Henri Matisse, quando rilasciò questa lunga intervista a Pierre Courthion. Era il 1941 e il suo stato di salute era precario. E quando venne il momento di pubblicarla, lui si tirò indietro: troppo personali le riflessioni e le confessioni che sarebbero finite nero su bianco. Così, per settant’anni, quelle carte restarono chiuse in un cassetto. Ora, finalmente, vedono la luce. E qui ve ne regaliamo qualche passo.
Quando andavo in vacanza da mio padre, commerciante di granaglie, tornavo a Parigi con un sacco di riso, molto apprezzato da me e dai miei amici quando si arrivava con difficoltà a fine mese. Quel riso, cotto semplicemente in acqua salata, lo trovavamo squisito. Purtroppo non ci riempiva a lungo lo stomaco e ingannavamo l’attesa di una seconda porzione facendo musica e cantando.
Periodo di vacche magre, insomma. Ci sono passato anch’io. E non aveva per niente il sapore della carne!
Anche Zola e Cézanne, da studenti, avevano le loro riserve per la fine del mese; nel loro caso si trattava di una latta di olio d’oliva di Provenza che mangiavano con il pane.
[…]
Abitavo allora di nuovo in quai Saint-Michel, a un piano su in alto che era stato aggiunto successivamente. Gli studi ricevevano la luce dai lucernari sul soffitto, ce n’erano di simili in diversi edifici vicini. La mia portinaia, la vecchia Papillon…
Che nome grazioso per una portinaia!
La vecchia Papillon era una donna insopportabile. Be’, un giorno ha visto salire oltre duecento persone nel mio piccolo studio di cinque metri per sei, senza aver mai visto ridiscendere nessuno. I compagni salivano, uscivano sul tetto, passavano nella stanza di un amico, tornavano giù per le scale della casa vicina, si cambiavano la giacca o si mettevano un camiciotto e il circo ricominciava.
Ma ce n’è una di ancora più divertente. È la storia della tartaruga della portinaia di Gustave Charpentier.
Charpentier il musicista?
Proprio lui. Questa portinaia possedeva una tartaruga di cui andava orgogliosa. Charpentier aveva comprato tutto un assortimento di tartarughe: dalle più grosse alle più piccole. Ogni giorno sostituiva con una delle sue la tartaruga della portinaia, e poi le diceva: “Ma cos’ha questa tartaruga? Sta proprio bene! Si è fatta ancora più grossa!”. Poco più tardi ha cominciato a farla gradualmente rimpicciolire. Alla fine la tartaruga era veramente minuscola.
[…]
Ho finito per considerare i colori come forze da assemblare a seconda di come dettava l’ispirazione. I colori possono essere trasformati dai rapporti fra di essi; ossia, un nero diventa nero-rosso se messo vicino a un colore un po’ freddo come il blu di Prussia, mentre diventa nero-blu se posto vicino a un colore che abbia un fondo estremamente caldo: l’arancio, per esempio. Da quel momento ho cominciato a com- porre una tavolozza espressamente per ogni dipinto, il che mi consentiva di sopprimere dalla tela che stavo dipingendo uno dei colori primordiali, come un rosso, un giallo o un blu. Questo è l’esatto contrario di ciò che prescrive la teoria del neoimpressionismo, basata sulla mescolanza ottica e sui vincoli imposti dai colori, perché ogni colore ha una sua reazione. Per esempio: se c’è un rosso, ci vuole un verde.
Insomma, i complementari.
Sì. In un dipinto, le reazioni dei colori neoimpressionisti comportavano dei dominanti. Questi dominanti creano reazioni, ma devono pur sempre restare dominanti.
Le sue reazioni mi sembrano essere di tutt’altro ordine; nella sua pittura, non sono subordinate.
Le mie reazioni non sono subordinate ai dominanti, ma raggiungono la loro stessa intensità.
Il che significa che non ci sono dominanti nella sua pittura?
Esatto. Tutti i colori cantano insieme; hanno la forza necessaria per creare il coro. È come un accordo musicale.
Ha riportato sulla scena le pan coloré, la superficie di colore uniforme.
Sì, un muro.
Trovo che sia una cosa essenziale per tutta l’evoluzione della sua arte. Questo punto ci aiuta a capire sia il passaggio attraverso l’influenza neoimpressionista, sia ciò che lei è diventato una volta messe a frutto le sue doti di colorista. Si è anche parlato delle sue “opposizioni volontarie”. Nei suoi ricordi, il pittore Jean Puy, suo vecchio compagno, cita Il rapimento di Rebecca di Delacroix, che lei ha copiato in bianco e nero.
Quando ero incerto sul colore da applicare, usavo un nero puro e continuavo il mio dipinto finché non trovavo il colore che sostituisse il nero. In fondo, il mio nero era una forza, era addirittura un colore come un altro, solo che nel momento in cui lo usavo, nell’attesa di trovare il colore giusto, lo consideravo una cosa un po’ neutra.
Il nero era un veicolo.
Sì. Quando c’è luce, si mette un colore scuro in opposizione a uno chiaro. Senza opposizione, non c’è luce. Un foglio di carta è bianco, è niente. Bisogna metterci dentro un rapporto; per metterci luce, ci vuole un nero. Durante una stagione a Collioure, ho cominciato a dipingere basandomi su una teoria o mania di cui parlava Vuillard, che al riguardo usava l’espressione “il tocco definitivo”. Osservando i lavori di quell’epoca di Vuillard e Bonnard, ho cercato di capire di cosa si trattasse e ho scoperto che questi pittori s’imponevano di decidere quale colore usare per esprimere un oggetto e che poi si vietavano di tornarci sopra, di riprendere quel colore; potevano solo stendere un secondo colore, poi un terzo, un quarto, e non erano permessi pentimenti. Questo mi è stato molto utile perché, in base alla sensazione della colorazione di un oggetto, stendevo il colore, che era il primo colore della tela, poi ne aggiungevo un secondo e, se questo sembrava stridere con il primo, invece di riprenderlo ne mettevo un terzo, che avrebbe dovuto accordarli. Dovevo continuare in questo modo finché non avevo la sensazione di avere creato una totale armonia sulla tela, finché non avevo sfogato l’emozione che mi aveva spinto a iniziare quel dipinto. E constatavo che molti punti della tela non erano coperti dal colore: il bianco della tela sembrava sufficiente accanto ai diversi colori e, grazie al contrasto, si giovava di quei colori per tingersi della complementarità del colore.
Questo spiega perché, nella sua Natura morta con busto di gesso e fiori del 1912, abbia lasciato trasparire in alcune parti il bianco della tela.
Era molto interessante, ma non potevo continuare su questa strada, perché un dipinto è per definizione una tela coperta di colori. E poi partivo sempre dal bianco. Avrei voluto partire da un fondo diverso dal bianco, ma non mi è mai riuscito. Credo che ciò dipendesse dal mio contatto con i neoimpressionisti, che consideravano il bianco il supporto della purezza e il punto di partenza di ogni creazione.
Qualche tempo fa ho incontrato Bonnard e gli ho parlato del “tocco definitivo”, ma lui è caduto dalle nuvole. È piuttosto curioso.
Pierre Courthion e Henri Matisse
Henri Matisse: l’intervista perduta con Pierre Courthion
a cura di Serge Guibault
Skira, Milano 2015
Pagg. 272, € 18
ISBN 9788857227160
www.skira.net
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