Sull’affaire Hermann Nitsch
La mostra di Hermann Nitsch inaugurata da poco a Palermo sulla scia di un coro di proteste (70mila firme contro in poche settimane), pone la questione dell'arte a un livello non più estetico ma antropologico e sociale. E per altri aspetti anche politico; anzi, di una transpolitica dell'estetica, dove termini quali “sacrificio”, “mistica”, “abiezione” diventano nodi decisivi per la comprensione di ciò che è in gioco in “Nitsch lo squartatore”.
IL SACRIFICIO IERI E OGGI
Circa il sacrificio già nel libro dei Numeri si racconta: “Però il primogenito del bestiame bovino, ovino e caprino non dovrai riscattarli. Essi sono sacri. Il loro sangue lo spargerai sull’altare” (18, 18). Verso la fine del IV secolo prende inizio l’interdizione dei sacrifici. Viene infranto il sistema d’alleanza fra comunità e dei, fra mortali e mito. Poco prima dell’affermazione ufficiale del cristianesimo, Luciano di Samostata (un Voltaire del II secolo) leggerà nei sacrifici – come anche nelle preghiere e nelle credenze – forme della miseria umana: il povero, osservava, che non può pagarsi il sacrificio animale per la grazia degli dei, si taglia la mano e la offre come pegno.
Ora i “sacrifici” che più di mezzo secolo fa mise in atto Nitsch, con Orgien Mysterien Theater, vollero essere la risuscitazione a un tempo del dramma e dell’epica in un mondo dove sia l’una che l’altra furono sacrificate all’anti-società della “società dei consumi”. La ricerca di un primum assoluto del sé era il punto nodale di Nitsch, che passava attraverso una riesumazione del misticismo. Ma il dramma e l’epica facevano anche vedere come il soggetto soccombesse all’assoggettamento: il sacrificio, vale a dire il debito dell’uomo verso le potenze soprannaturali, poi sostituito con l’animale. E, dunque, il debito verso i vicari di queste potenze – il Re, l’imperatore, il sovrano. Il sacrificio era il debito obbligatorio dell’uomo comune verso la potenza materiale (il sovrano) e immateriale (Dio).
Ma, oggi, è diverso? L’infinito debito causato dalle speculazioni finanziarie (private) e “trasfigurato” in debito pubblico, non appartiene allo stessa forma di assoggettamento anime? Il sacrificio che vede oggi milioni di persone di fronte alla miseria che in molti casi ha portato al suicidio e alla violenza di massa non è il rivelatore della violenza sacrificale che vede il debito verso il dio capitale – metamorfosi degli dei e di Cristo di ieri – quale potenza materiale e invisibile a un tempo?
LA MISTICA TEDESCA
Sia l’archeologia del linguaggio che l’antropologia convergono nel dire che il sacer, ovvero la sostanza animale o umana che è esclusa dalla comunità dei mortali (come lo è l’uomo comune d’oggi escluso dal lavoro e dai diritti), è il dispositivo di assoggettamento espresso nella forma di una ritualità obbligatoria che è quella dell’accettazione passiva dello status quo.
Certo, l’analogia fra sacrificio mistico e sacrificio neoliberista potrà sembrare azzardato. Tuttavia hanno una radice comune nel debito verso la potenza. Benché Nitsch giustifichi le sue “azioni” come una procedura di “mistica dell’essere”, tuttavia questa mistica ha il sapore di un fatto compiuto: un’accettazione implicita delle conseguenze come “misterium”.
Occorrerebbe indagare bene questo appello alla mistica e cercare di vederne i risvolti storico-politici, come quelli che portarono il mistico protestante conterraneo della Merkel, Martin Lutero, a consigliare di dar fuoco alle sinagoghe per purificare la Germania dagli ebrei.
Ma non voglio arrivate a una similitudine di questo tipo. Nitsch non è un mistico alla Lutero, né un reazionario come da più parti si dice. Chi lo conosce lo sa bene. Piuttosto è ambiguo. Perché è proprio delle pratiche mistiche approdare a forme di ritualità che perversamente evitano di fare una differenza fra natura e cultura. E dunque, come già Freud aveva indicato, precipitare nell’indistinzione fra materia escrementizia e materia carnale, fra lo scorticamento e la preghiera; insomma, si tratta di uno sconfinamento dei sensi nell’abiezione. Condizione rimossa dalla nostra “civiltà”. Questo, se si vuole, è il suo lato sacrilego ma coraggioso, poiché mostra quello che siamo stati e che siamo, e che non vogliamo vedere.
LA COLPA INFAMANTE DI CHI NON HA DIRITTI
Con Nitsch entriamo nel vivo di questa mistica dove l’anale si sposa col sacrale seguendo una procedura razionalmente distruttiva del profano.
Infatti, le Azioni” di Nitsch sono ritualmente perfette. Mirabili in ciò che propongono. Un vortice che dall’antropologia alla storia e poi all’arte, investe gli stati liminari del rapporto fra uomo e animale. Fra uomo e uomo. Fra esistenza e morte. Fra sacro e profano. Nella forma, le azioni somigliano a un’architettura dove ogni gesto è posizionato come una formula matematica. Nulla deve sfuggire ad essa. Tutto il vortice della violenza viene riposizionato a partire da questa ritualità della crisi sacrificale che segna la nostra cultura, di ieri e di oggi. Il sacro separa l’ordine del regolare dall’eccezionale. Sugli usi razionali e strumentali del sacro ci sarebbe molto da dire. Sacro, osservava Dumezil, è colui che è escluso dai diritti dei mortali perché porta una “colpa infamante“.
Ecco il punto di convergenza fra pratiche mistiche del sacrificio di ieri e di oggi; perché oggi il sacrificio non è più quello delle religioni o quello messo in mostra dall’arte, ma molto più radicalmente e razionalmente dal capitalismo finanziario che ha fatto del debito e della vita a credito la sostanza stessa del sociale, di fronte alla quale a popoli interi viene addebitata una “colpa infamante”, quella causata dalle insindacabili potenze economiche, così come insindacabili erano le potenze degli dei.
D’altra parte in Nitsch coincidono sia il sacrificio “solido” sia quello “liquido”. La carne aperta, anzi squartata e il sangue (il liquido) convergono nello stesso luogo: l’immagine come ferita aperta e mai chiusa della nostra civiltà, come dimostrano le spettacolari immagini di violenza che quotidianamente, anzi ritualmente, consumiamo come una partecipazione al sacrificio alle attuali potenze planetarie. E ogni sacrificio, di ieri e di oggi, non può che illustrate questa violenza che attraverso l’immagine viene fatta non solo all’uomo in quanto ente, ma all’immagine stessa in quanto potenziale attraverso cui si potrebbe immaginare un mondo senza più sacrifici.
SQUARTAMENTI: DA CRISTO A HIRST
Dall’antropologia sappiamo che ogni squartamento, ogni svelare le ferite della carne è un atto liminare, dove la cultura precipita nel ventre delle proprie violenze e dei propri fantasmi da rimuovere. E in Nitsch ogni mostrare fa parte di una liturgia, come la liturgia della violenza corporale inflitta ai soldati iracheni nel carcere di Abu Ghraib. Crocifissioni, squartamenti, mortificazioni della carne fatte al ritmo della liturgia e fissate in immagini: immagini della nostra civiltà. Perché ogni squartamento o tortura non è altro che un’apertura del Sé attraverso il corpo degli altri, uomo o animale che sia.
E non dimentichiamo che il Medioevo, il Rinascimento e il Barocco non risparmiarono lo sguardo incredulo degli spettatori dalla violenza della morte sacrificale di Gesù, sostituto collettivo delle “colpe” degli altri. Anzi: la ferocia della morte era espressa senza alcuna mediazione. Il sangue scolava dal corpo di Cristo come quello di un bue squartato o di un agnello sgozzato a Pasqua per i piaceri (rituali?) della tavola. La ferocia mimetica dei dettagli di immagini dell’Inquisizione non lasciano dubbi sulla violenza ammassata nei secoli dalla nostra civiltà. Da quasi un ventennio questa stessa ferocia la possiamo vedere nelle pecore o squali squartati e sezionati di Damien Hirst nei più grandi musei del mondo, quasi come un patrimonio dell’umanità, tanto valgono in denaro.
LA NECROSPETTIVA DI NITSCH
Oggi Nitsch ritorna con una mostra antologica a Palermo dove più che lo squartamento in gioco c’è una specie di archeologia della violenza perpetuata che viene esposta attraverso il sacrificio; fenomeno fatto oggetto di contemplazione per i voyeur dello spettacolo della violenza, per altri si tratterà di una fascinazione della violenza, per altri ancora di una trasgressione dei limiti dell’arte.
In ogni caso l’affaire Nitsch ha tutto il sapore di una necrospettiva. La sterile polemica che lo ha visto resuscitare in una città dove la macellazione della carne (o per strage o per pratica alimentare) punteggia l’esistenza quotidiana, somiglia al tentativo di recupero di un moralismo che è stato colpevolmente inerte verso altri episodi dell’arte estremamente violenti per eutanasia dello sguardo, per anestesia della critica, per imbecillità dello spettatore.
Incapaci (o complici) di mandare al diavolo o di mettere in atto quel gesto di autoaffermazione della propria volontà di fronte all’impostura di certa “arte contemporanea” che ha letteralmente generato un genocidio dello sguardo sulla scia delle stronzate di un Jeff Koons (ne cito uno per tutti) o della sterile e compiacente “ironia” di altri campioni di un’arte la cui violenza per banalità, violenza per orgogliosa indifferenza al mondo, violenza per la fascinazione della coglionaggine, supera per gravità morale quella di Nitsch (se vogliamo restare in quest’ordine di idee).
CONTRO I CAPRI ESPIATORI
Gran parte di quest’arte che nella sua apparenza estetica si vuole piacevole per destino, gradevole per essere convenzionalmente trasgressiva, ironica come le battute dei presentatori televisivi, scherzosa come uno spot pubblicitario, utile come un tovagliolino usa e getta, insomma arte di entertainment; in quest’arte, oggi cosi diffusa come una metastasi, dobbiamo leggere i segni di una violenza che è ben penetrata nello sguardo dello spettatore, poiché ha catalizzato una certa “critica”, ha incantato come gli stregoni di un tempo schiere di galleristi assoldati alle potenze indiscutibili del mercato.
Si tratta di un certo sistema dell’arte che spalleggia con l’opportunismo codardo di cui è capace l’abiezione neoliberista che sta sacrificando interi popoli al debito che ha generato.
Sorge spontanea una domanda: verso cosa indirizziamo l’indignazione e la protesta? Verso Nitsch, ormai innocuo vecchietto che ha mostrato l’immagine aperta e mai chiusa della nostra civiltà? Ma se è così, non si finisce per fare di Nitsch stesso un capro espiatorio e sacrificarlo come un bue al moralismo fondamentalista e porsi così dalla parte dei carnefici di una volta, e – ironia della sorte – stare inconsapevolmente dalla parte di quel capitalismo onnivoro che attraverso le banche produce giornalmente suicidi? Perché passando davanti a una banca restiamo inerti? Brecht negli Anni Trenta del secolo scarso annotò che la creazione di una banca equivale a un crimine. Oggi questo crimine è sotto gli occhi di tutti con la Grecia. Mi aspetto dai paladini dei “diritti degli animali” settantamila volte settantamila firme contro il lavoro criminale delle banche e delle multinazionali che uccidono l’economia di intere popolazioni con guerre e carestie, animali compresi.
L’ARTE NON È LA POLITICA
Dove indirizziamo dunque la protesta, atto morale e politico per eccellenza? Quest’arte banale – come chiamarla? – che da quasi trent’anni s’impone come norma estetica e quindi come ideologia, è di una violenza ben maggiore. A dispetto di quel che pensa Jean Clair nel suo De immundo, che prende alla lettera la violenza dell’arte, risparmiando quell’altra violenza, ben più radicale perché soffice, morbida, sottile come può esserlo una bambolina di Mariko Mori.
Ci si indigna per Nitsch, mentre si risparmiano i campioni della banalità nell’arte che forniscono una cornice estetica alle mafie finanziarie che a loro volta le supportano – gli uffici delle grandi multinazionali sono ornate di queste banalità senza fine. Queste sì, produttrici di morte su scala mondiale.
Mentre si gasavano gli ebrei, i nazisti ballavano con i valzer per alleggerire il peso immorale delle loro razionalistiche purificazioni. Oggi uno show, una fiction, un mare di feticci morbidi e “ironici” (sic!) popola il mondo dell’arte, partecipando all’occultamento e alleggerimento dei crimini che si stanno perpetrando nella porta accanto. In altre parole: si è compiuto il “genocidio culturale” di cui parlava Pasolini già alla fine degli Anni Sessanta del secolo scorso.
Certo, l’arte non ci salva dai crimini della finanza.
Qualcuno scrisse che un quadro di Picasso in una fabbrica non avrebbe migliorato la condizione degli operai. Non si può chiedere all’arte ciò che dovrebbe fare la politica. Ma ha il potere di sottrarvisi e dichiararsi veramente libera. Che poi anche questa “libertà” si venda, rilancia il problema della fine dell’arte. Si potrebbe dire che l’arte finisce là dove inizia il mercato che la trasfigura in merce o prodotto.
Può esistere un’arte senza mercato? Per il sistema dell’arte pare di no. Ma il sistema dell’arte è appunto il packaging dentro cui la produzione artistica viene centrifugata e fatta circolare, non l’arte. Dunque, forse c’è spazio per pratiche artistiche senza sistemi e senza mercato sulla scia dell’anti-architettura di Yona Friedman o dell’anti-economia di Latouche (la “decrescita”).
Ma viviamo ancora nella sfera del mondo capitalista. Dunque l’arte può morire come qualsiasi altra merce, e rinascere come revival, come sta accadendo da qualche tempo. Un mondo di spettri. Oppure seguiamo i suggerimenti di Bourriaud che vede la storia dell’arte come un magazzino di forme da riutilizzare. Ma questa era già l’intuizione di Guy Debord negli Anni Cinquanta. La questione resta aperta.
Marcello Faletra
Palermo // fino al 20 settembre 2015
Hermann Nitsch – Das Orgien Mysterien Theater
a cura di Giuseppe Morra e Michel Blancsubé
ZAC – ZISA ARTI CONTEMPORANEE
Via Gili 4
[email protected]
www.museonitsch.org
MORE INFO:
http://www.artribune.com/dettaglio/evento/46528/hermann-nitsch-das-orgien-mysterien-theater/
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