Le voci di tutte le nonne del mondo. Intervista con Yuval Avital
Non è un bazar femminile, né una collezione, né una mostra. È un’installazione icono-sonora per una foresta di 140 altoparlanti. “Alma Mater” è il nuovo progetto multimediale del compositore israeliano Yuval Avital, allestito alla Fabbrica del Vapore di Milano dall’8 luglio al 29 agosto. In dialogo con il Terzo Paradiso di Michelangelo Pistoletto.
Compositore e chitarrista classico ed elettrico. Qual è la tua formazione?
In Israele facevo parte del Jerusalem Institute of Contemporary Music, legato al mondo del jazz, della musica improvvisata e aleatoria, dove ho avuto esperienze vicine alla formazione della musica modale mediorientale centroasiatica, e in parallelo studiavo teatro. In seguito ho cominciato il mio percorso di studi in chitarra classica all’Accademia di Musica e Danza di Gerusalemme, specializzandomi in musica contemporanea e lavorando spesso a stretto contatto con compositori. Facevo parte del team di ricerca etnomusicologica nella Fonoteca Nazionale.
Quando hai trovato la tua direzione musicale?
Lì alla Fonoteca ho iniziato a creare progetti multidisciplinari che coinvolgevano la danza, la poesia e più linguaggi musicali. Nel 2002 sono arrivato in Italia per far parte della classe dei solisti del direttore della Fondazione Andrés Segovia di Linares, Angelo Gilardino, che è stato per me, oltre che maestro di musica, un amico e ispiratore di vita. Per qualche anno ho studiato anche al Conservatorio di Milano nel Dipartimento di Musica Elettronica e Nuove Tecnologie. Parallelamente al percorso accademico, ho avuto numerose esperienze, fondamentali per la mia formazione: creazioni che coinvolgevano portatori di tradizioni orali, come i nomadi del Kazakistan (Slow Horizons 2006) o scienziati della NASA e dell’ESA (Unfolding Space 2012), con strumentisti virtuosi, facendo anche incursioni nel mondo della danza e delle arti visive. Queste sono state forse le tappe fondamentali per me.
Conta di più la pratica sul “campo” o l’accademia?
Il mondo accademico ti dà una base, gli strumenti per poi crescere, ma lo studio vero dell’artista è il lavoro. La sfida più grande è quella di dimenticare quello che si sa già, per creare nuove possibilità che nascono attraverso l’indagine del tema che si ha di fronte. Del resto, anche Alma Mater può essere definito uno studio.
Quali sono le tue influenze musicali?
Per quanto riguarda il suono, ho una grande attrazione per due mondi quasi opposti. Il primo è quello semantico, viscerale ed espressivo che si può trovare nel canto popolare, nel rock classico, nel free jazz di Ornette Coleman, nel metal e nel noise. L’altro è quello legato alla struttura e alla bellezza. Mi riferisco al canto gregoriano, a Gesualdo da Venosa, a György Ligeti, al taksim arabo, ma anche al suono singolo di una campana, di masse sonore di rituali, processioni, ai primi album dei Pink Floyd, a Stockhausen o anche al rave, alle mille sfumature della voce, al suono artificiale sintetizzato e iper-elaborato. Sicuramente, come a ogni compositore, mi interessa la ricerca dell’ordine che può essere un meccanismo quasi rivelato, come nel caso di Aphex Twin e Steve Reich, o al limite dell’aleatorietà e casualità, come nel caso di John Cage.
E i tuoi riferimenti nelle arti visive?
Nelle arti visive prediligo la linea essenziale, la ricerca dell’arcaico, dell’archetipo. Ho una grande ammirazione per il lavoro di Anish Kapoor e quello di Arturo Martini, dall’altra parte per la poesia dell’intimo di Louise Bourgeois, per la bellezza classica che si ingloba anche nella tecnologia di Bill Viola.
Sei noto per la composizione di opere icono-sonore, come Noise for Syd, in omaggio al fondatore e leader dei Pink Floyd. In cosa si differenzia la loro messinscena da un genere come l’opera rock?
Le opere icono-sonore sono basate su una creazione composta in parti uguali dal visivo e dal musicale, in cui il linguaggio compositivo si espande fino all’essenzialità sonora, mentre quello visivo cerca di codificarsi in meta-simboli, “icone”, quadri allegorici. Ogni opera icono-sonora parte da un’indagine che non è guidata da un range tematico prescelto, ma da un’attrazione verso storie, realtà, rapporti che mi ispirano.
Qual è il processo che s’innesca quando crei un’opera icono-sonora?
Nel caso di Syd Barrett, la materia prima da cui ho preso ispirazione è proprio la sua storia, rimasta come un eco irrisolto che io considero come una tragedia greca contemporanea, e il contesto in cui si svolge, un mondo psichedelico scomparso e sostituito da un certo tipo di formalismo. Questo soggetto richiedeva il body painting, le proiezioni, l’art show e il “rumore”. Differente il caso dell’opera Samaritani, in cui dominava l’essenzialità dei riti. Ancora, il progetto con la NASA è stato totalmente diverso, tutto focalizzato su meccanismi di traduzione dello spazio cosmico.
Altra tua prerogativa è il coinvolgimento di moltissimi interpreti, anche distanti tra loro per cultura, tradizione, storia, professione, per creare dei grandi eventi sonori di massa. Come ne risolvi le criticità?
Nella tua domanda ci sono in realtà due aspetti paralleli di natura diversa, che nella mia opera a volte si intrecciano. Il primo è il concetto di massa o di folla, che mi spaventa e mi affascina allo stesso tempo. A Gerusalemme, per esempio, si percepiscono tante voci che si incontrano e fondono insieme nei mercati, al Muro del Pianto o in un semplice pullman. C’è una vocalità che diventa materica. In Italia, invece, ci sono le processioni, gli stadi, manifestazioni, un sistema sonoro complesso che sta in equilibrio. Da lì sono partito per costruire alcuni miei lavori, come Garon (2012) per 45 tube, percussioni, voci ed elettronica, realizzato come evento di chiusura di Dirty Corner di Anish Kapoor, un evento esperienziale, impossibile da riprodurre tramite registrazione, perché il suono ti avvolge nel momento esatto in cui ci sei immerso dentro.
Il secondo aspetto è quello policulturale, che mette in un rapporto ricomposto tra di loro paradigmi estetici e tradizionali autonomi. Non sono interessato ad alcun aspetto esotico o decorativo, ma piuttosto a quello semantico e strutturale. In questo, cerco di trovare simmetrie e assonanze, ma anche di creare una tensione tra le diversità che lo compongono. Questa tensione portata all’estremo rischia di diventare una casualità, ma se misurata in modo approfondito può portare a risultati meravigliosi.
Nell’incanalare questa tensione verso una precisa direzione il tuo ruolo si può paragonare a quello del direttore d’orchestra?
Nell’opera REKA (2014), ad esempio, i solisti sono sei cantori tradizionali molto diversi tra loro, veri portatori di tradizioni orali uniche. Ho lavorato con ciascuno di loro dal punto di vista etnomusicologico, per codificare degli elementi che sono stati la base di una partitura di facile comprensione; in un certo senso ho smembrato e ricostruito il loro linguaggio. Per questo non mi sento il direttore di un’orchestra. Mi sento più un compositore nel senso etimologico del termine, che mette le cose insieme e crea un rapporto tra di loro. Per me comporre significa creare un suono, un’immagine, un oggetto, una situazione, non c’è quasi un’altra parola che possa esprimere meglio ciò che faccio.
In Alma Mater hai coinvolto nonne di tutto il mondo per dar vita a una visione ancestrale della Madre Terra. Ci puoi raccontare la sua origine?
La voce anziana già di per sé devia dal concetto comune di bellezza: non è potente, a volte è instabile, ma per me è molto essenziale e carica di sfumature espressive. Io ho avuto una nonna paterna incredibile, ebrea marocchina, una vera e propria Alma Mater. Aveva 14 figli e questa leggerezza di tocco e di pensiero: con una parola tutta la famiglia, mio nonno incluso, obbediva. L’idea originale era di creare una performance dal vivo di tante nonne di tante provenienze, ma sin dalle prime verifiche mi sono reso conto che sarebbe stato molto difficile, quasi impossibile. Quindi ho pensato a una foresta di altoparlanti, sviluppando il contrasto tra il lato umano molto intimo da una parte, e l’altoparlante dall’altra, un connubio che già di per sé rappresenta una forma di tensione.
E poi, come ti sei mosso?
Sono partito da una vecchia registrazione di mia nonna che cantilenava i salmi e successivamente ho coinvolto il LEAV – Laboratorio di Etnomusicologia e Antropologia Visuale dell’Università degli Studi di Milano e l’AESS – Archivio di Etnografia e Storia Sociale. In seguito, le collaborazioni sono aumentate in modo esponenziale e questa forma di open call ha iniziato a diffondersi e a coinvolgere molti centri di ricerca che mi hanno fornito tantissime voci femminili, voci di nonne che pregano, che raccontano fiabe, anche voci molto potenti, a volte forse stonate; ma la voce di una nonna che urla un lamento in Kurdistan è mille volte più potente di quella delle grandi cantanti soliste.
Ho raccolto decine e decine di giga di materia sonora prima, e ho iniziato a scegliere la parola, il suono, a volte solo un respiro, un canto, a cui si affiancano altre voci, suoni, sussurri. Pochi giorni fa ho completato l’ultima stesura dell’opera e poi ho ricevuto dei cilindri digitalizzati che riproducono donne anziane della Germania di inizio Novecento che in differenti dialetti dicono la stessa frase, così ho dovuto riaprire l’opera e inserire anche queste voci.
Come avviene il dialogo tra Alma Mater e il Terzo Paradiso di Michelangelo Pistoletto?
Ho iniziato ad avere rapporti con Cittadellarte nel 2006 grazie al mio progetto Trialogo Festival (2006-2009) che per due anni si è svolto proprio lì. Quasi un anno e mezzo fa abbiamo avuto l’idea di un Terzo Paradiso molto essenziale, fatto di terra contadina, scura, che sarebbe diventato il centro fisico, ideale e simbolico di tutta l’installazione.
La partitura sonora di Alma Mater è stata resa possibile grazie al supporto scientifico e ai contributi di numerosi centri di ricerca, come l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. In che modo?
Alle voci delle nonne ho aggiunto suoni della natura, come quelli dei terremoti e dei vulcani, ma avevo l’impressione che l’opera stesse diventando troppo arcaica. Quindi, per creare un contrasto, ho coinvolto due grandissime étoiles del Teatro alla Scala – Liliana Cosi e Oriella Dorella – protagoniste di un video che ho creato, in cui appaiono come icone soavi e poetiche. Anche la luce riveste un ruolo importante, grazie all’installazione site specific di Enzo Catellani, a mio parere uno dei designer/artisti più originali, sensibili e sublimi. La sua creazione quasi metafisica di luce e oro, sembra che respiri insieme al suono di Alma Mater. Infine ci sono le merlettaie brianzole della tradizione canturina, che rappresentano dal vivo l’archetipo dell’Alma Mater.
Sei fondatore della factory di arti performative Magà Global Arts che ha prodotto Alma Mater. In che direzione sta andando la multimedialità, campo che esplori da molti anni?
Quello di multimedialità è un concetto antico: in molte culture gesto, suono e immagine non sono dimensioni separate e tutto diventa rituale. Nella cultura classica, invece, questi campi sono distinti. Siamo strutturati, viviamo in un mondo che ha parallelismi di linguaggi e moltiplicazioni di culture che convivono, comunicano tra loro e pensano la realtà in tanti modi diversi. Magà in ebraico ha un doppio significato: vuol dire tocco e contatto. Magà Global Arts nasce dell’idea di un network di artisti e portatori di tradizioni antiche, di ricercatori, di persone che lavorano con tanti linguaggi differenti e danno vita a task force per creare dei progetti che si basano su un tema o un concetto. Questi possono diventare anche catalizzatori di tante altre esperienze, come nel caso di Alma Mater, che ha in programma una ventina di eventi collaterali tra concerti, workshop e incontri.
Claudia Giraud
Milano // fino al 29 agosto 2015
Yuval Avital – Alma Mater
FABBRICA DEL VAPORE
Via Procaccini 4
[email protected]
www.almamater.info
MORE INFO:
http://www.artribune.com/dettaglio/evento/46349/yuval-avital-alma-mater/
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