Louis “Lou” Bloom non è pazzo, così come non lo era Travis Bickle in Taxi Driver (il riferimento diretto più esplicito e pertinente di Nightcrawler – Lo sciacallo): è invece l’espressione perfetta dell’ideologia che muove e sottende la sua società. Il personaggio interpretato magistralmente da Jake Gyllenhaal nel film diretto da Dan Gilroy, infatti, non si oppone al mondo che lo circonda, non è uno sconfitto né un bohémien. Un’ideologia potentissima proprio perché non si vede, non si manifesta chiaramente, ma informa di sé i corpi, gli oggetti, i comportamenti e – soprattutto – l’intero dispositivo mediatico.
Come Lou spiattella con il suo tono gelidamente scientifico alla direttrice delle notizie mattutine Nina Romina (Rene Russo), la maggior parte degli americani guarda quasi esclusivamente canali televisivi locali: è interessata cioè solo e soltanto a ciò che accade sotto casa, nel contesto fisico caratterizzato da immediata prossimità. Questa chiusura di orizzonti da una parte riflette la chiusura degli stessi quartieri, delle zone benestanti e delle case nei suburbs residenziali di Los Angeles; dall’altra radicalizza in modo esponenziale l’ossessività dei contenuti shoccanti e orrorifici sottoposti alle 6 del mattino (“l’ora dei vampiri”) agli spettatori famelici di azione, iperviolenza e sensazionalismo. Ossessività dell’offerta e della domanda, che Lou si propone ovviamente di soddisfare.
Lo fa puntando sull’efficienza e sulla velocità – in questo, rispondendo perfettamente alle esigenze fondamentali del “sistema”, e anzi addestrandosi in maniera minacciosa ad essere il più efficiente, il più performante tra i suoi concorrenti-sciacalli: “Quando mi vedi, vuol dire che è il giorno più brutto della tua vita” diventa il suo slogan simpaticamente atroce. Lou è un millantatore, ma pian piano la sua fantasia imprenditoriale si trasforma in realtà, e pian piano scopriamo che questo sociopatico da manuale è l’imprenditore modello richiesto dal capitalismo, il self-made man che costruisce rapidamente dal nulla la propria identità professionale. Metà verme e metà supereroe dell’informazione, Lou sfreccia per le strade della metropoli prima sulla sua carretta anonima, poi sulla fiammante Dodge rossa – altrettanto anonima. Il dinamismo e il vuoto sono i suoi tratti caratteristici, e vincenti: sa benissimo di essere più veloce di tutti, sia nel pensiero che nell’azione, ed è completamente amorale piuttosto che immorale.
Va orgoglioso del suo processo di autoformazione, condotto su Internet: “Se sai quello che stai cercando, puoi trovare di tutto”. Quale alfiere migliore, e più audace, del neo-giornalismo nel XXI secolo? Fieramente, come un novello Dziga Vertov o Walter Ruttmann, identifica sempre di più il proprio sguardo e la propria presenza con l’obiettivo della telecamera; e a un certo punto rivendica proprio l’inquadratura come unico criterio selettivo, come discrimine tra ciò che va ripreso e ciò che bisogna escludere. Cosicché, anche ai file che man mano carica sul suo computer si potrebbe riferire la critica che Siegfried Kracauer – l’autore di Da Caligari a Hitler: una storia psicologica del cinema tedesco – rivolse al capolavoro Berlino – Sinfonia di una grande città, accusandolo di “cecità sociale”: “Mentre nei grandi film russi le colonne, le case e le piazze vengono ben esplicitate nella loro importanza per l’uomo, qui vengono messi in fila dei frammenti dei quali nessuno può immaginare il perché della loro presenza” (Wir schaffens, “Frankfurther Zeitung”, n. 856, 1927).
A complicare ulteriormente le cose, la strana assonanza del nome del personaggio con il protagonista dell’Ulisse (1922) di James Joyce: Leopold Bloom, L. Bloom che compie la sua odissea moderna a Dublino il 16 giugno 1904 mentre i suoi pensieri e le sue associazioni occupano le pagine del romanzo. Ma, a differenza di Leopold, Lou non è un personaggio all’interno della città: è piuttosto una funzione della città stessa. Mentre siede davanti al volante o sul tettuccio dell’auto, mentre guida o impugna la telecamera o viene respinto dai poliziotti, non sta guardando affatto il paesaggio urbano attorno a sé – perché è parte integrante di esso. Non ha alcuna vita psichica distaccata dall’ambiente che attraversa; l’unica attività psichica – macchinica, automatica: warholiana – consiste precisamente in questo attraversamento. Orientato esclusivamente a catturare la sua preda: la notizia efferata, il fatto di sangue, l’immagine cruenta da esporre in apertura dell’insulsa trasmissione quotidiana.
Christian Caliandro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #24
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