La carica dei 200. Sul concorso per i super direttori
Non dopo Ferragosto. Questo il periodo entro il quale il Ministro Franceschini nominerà i venti direttori dei super musei italiani. Ad arrivare alla prova orale sono stati dieci volte tanto, ma la commissione giudicatrice ne ha scelti soltanto tre per ogni posto. E però restano molti dubbi, a partire dall’assenza di manager nelle candidature.
LA FATIDICA PROVA ORALE
Luglio. L’afa e la calura romana avvolgono come una cappa improbabile la città e tutto ciò che contiene. Quasi fosse una bolla con all’interno tante altre piccole bollicine. In una di queste bollicine, la tensione è alle stelle: il caldo che si sente è fortissimo, ma non c’entra che è luglio, perché questa bollicina ha l’aria condizionata. Il calore che si sente qui è quello della tensione, dell’emozione che fa sudare le mani. E le mani sono quelle di duecento persone che, dopo una rigidissima selezione per titoli, meriti e curricula, e dopo un workshop che tutti i presenti hanno brillantemente superato, ora si trovano di fronte alla loro prova finale: l’esame orale.
Dopo aver trascorso notti insonni, cercando spasmodicamente sul sito dedicato, tutti i presenti hanno letto con ansia e nostalgia l’annuncio in cui “sono ammessi al colloquio” e hanno scorso in fretta l’alfabeto di nomi e punteggi per trovare finalmente il loro nome (o la loro matricola?).
Di chi si tratti lo avete già capito. È così che immagino la scena dei duecento super-direttori che si sono sfidati a colpi di eloquenza per avere l’incarico nella direzione cui si sono candidati.
Per inciso: il documento esiste davvero, e il “sono ammessi al colloquio” non è una licenza poetica, ma una citazione letteraria.
Si perdoni dunque l’approccio alla Moccia, ma questa storia sembra scritta per lui.
Ma è anche un po’ la storia di Francesco (Buranelli), Antonio (Lampis), James (M. Bradburne Aadipl), e dei duecento gladiatori contemporanei che hanno combattuto come highlander per poter vincere la carica.
Ma non ci sono solo loro: sullo sfondo c’è anche questo Paese, questa Italia Mediatica, che non riesce a fare un passo senza voce narrante.
CHI ERA IN COMMISSIONE?
Torniamo alla fatidica prova finale: come sarà andata?
Come ogni prova orale, non si sa mai cosa ti potranno chiedere. E in effetti, mentre sulle caratteristiche valutate durante la fase degli “scritti” c’è stata una certa diffusione delle informazioni, poco (o nulla) è trapelato dei colloqui.
Allora, come si fa per ogni esame, si può immaginare il tenore delle domande dal professore (e dai suoi assistenti).
In cattedra, con potere di firma, il ministro Franceschini, al quale spetterà l’ultima parola. Ma la commissione è presieduta, con cipiglio, da Paolo Baratta (presidente della Biennale di Venezia) e ne fanno parte Lorenzo Casini (professore di diritto amministrativo dell’Università di Roma Sapienza ed esperto di legislazione per il patrimonio culturale), Claudia Ferrazzi (segretario generale dell’Accademia di Francia-Villa Medici di Roma, già vice amministratore generale del Louvre), Luca Giuliani (professore di archeologia classica e rettore del Wissenschaftskolleg di Berlino) e Nicholas Penny (storico dell’arte, già direttore della National Gallery di Londra).
Una commissione importante, ma alla quale forse manca ancora qualche credito per poter “valutare” le risposte dei candidati: tra i quali spiccano nomi di indubbio prestigio internazionale, accanto ad altri che, pur non avendo le stesse caratteristiche, sono arrivati nella top ten grazie al loro ruolo dirigenziale presso il Ministero.
Tutto in regola, per carità, come si può evincere dal bando: tra i requisiti era infatti segnalato che, oltre alla conoscenza della materia, era necessario anche avere: comprovata esperienza in fund raising; comprovata esperienza in comunicazione; conoscenza approfondita del diritto amministrativo italiano (ecco il perché della presenza di Casini).
DOVE SONO I MANAGER?
Ma, più di tutto, a giudicare le mansioni e le responsabilità che il bando assegna ai candidati, chi doveva presentarsi doveva essere un grande manager.
Già, perché la svolta che ci era stata promessa era proprio quella che stabiliva che a condurre il museo fosse un uomo di mercato, un uomo capace di gestire la cultura come asset e in grado di portare profitti (già, perché è quello che tutti vogliamo) dalla gestione museale.
Eppure, senza nulla togliere alle professionalità che impreziosiscono le pagine del sito web del Mibact, non c’è stata questa grande presenza di manager internazionali.
Certo, quello dell’economia e della cultura è un discorso noioso, ma avere grandi meriti accademici non equivale essere stato presidente di un CdA o di aver portato introiti a una struttura culturale: eppure le due cose si equivalgono nei prerequisiti, dove venivano indicati come possibili candidati coloro i quali vantavano nel proprio curriculum “una o più delle seguenti attività”:
– essere dirigente di ruolo del Ministero;
– avere ricoperto ruoli dirigenziali, per almeno un quinquennio, in organismi ed enti pubblici o privati, ovvero in aziende pubbliche o private, in Italia o all’estero;
– essere in possesso di una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e post universitaria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro maturate, per almeno un quinquennio, anche presso amministrazioni pubbliche, in Italia o all’estero;
– provenienza dai settori della ricerca e della docenza universitaria in Italia o all’estero.
Ora, con questo bando sicuramente è stata portata all’attenzione pubblica la possibilità di vedere un manager in un museo: ma tra i vari Vona, Iodice, Lampis, Casciu e affini, non spiccano coloro che potrebbero proprio essere definiti manager.
Per carità, non è mia intenzione sostenere che chi guida un museo debba necessariamente essere un manager, ma se questa era l’intenzione del ministro, beh i risultati hanno portato ad altro.
DOMANDE INEVASE
Ma passiamo oltre. Ora che gli orali sono terminati, la commissione passerà in rassegna tutte le candidature per fornire a Franceschini una rosa di tre nomi, dai quali estrarrà come un asso da un cilindro magico il Super Direttore, che – ripetiamolo – è colui che: programma, coordina e indirizza tutte le attività di gestione; cura il progetto culturale del museo; stabilisce i prezzi dei biglietti; assicura elevati standard qualitativi; stabilisce gli orari di apertura del museo; assicura la piena collaborazione con la Direzione Generale; assicura la collaborazione con il territorio; autorizza il prestito dei beni culturali; autorizza l’attività di analisi e di studio; dispone l’affidamento delle attività di valorizzazione; favorisce le erogazioni liberali da parte dei privati; svolge attività di ricerca; svolge funzione di stazione appaltante.
Dall’analisi delle mansioni si può dunque comprendere come mai non abbiano partecipato poi così tanti manager internazionali. E a guardare la retribuzione (soprattutto per le direzioni non generali), forse è meglio rimanere con il proprio posto.
Ma, soprattutto, a giudicare dall’analisi delle mansioni emerge una domanda: con quali risorse? Già, perché sinora si è parlato in maniera piuttosto chiara dei livelli di retribuzione, ma poi? Come faranno questi super manager a guidare super-musei, nell’onda del super-ottimismo renziano?
Quali fondi verranno loro assegnati? Per quali tipi di progetti? Per i progetti che hanno sottoposto all’attenzione della commissione esaminatrice, o quelli servivano come atti del concorso, come esercizio teorico di immaginazione?
E ancora, quali sono le tempistiche, le deadline da rispettare? Come dovranno interfacciarsi i super manager con le sovrintendenze? Chi avrà potere decisionale su chi? Saranno necessari dei regolamenti attuativi per stabilire queste nuove prassi? Se sì, sono stati già scritti?
Da mesi si parla tanto, tantissimo di questa rivoluzione. Eppure, a fare domande, non si trovano risposte: su questi temi non ci sono stati post.
Peccato.
Stefano Monti
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