De Appel. Dove crescono i curatori. Parola a Chiara Ianeselli e Inga Lace
Amsterdam. Due partecipanti del programma curatoriale de Appel si sono appena incontrate dopo i dieci mesi trascorsi nel rinomato corso per la formazione di curatori, aperto nel 1994. Il de Appel Curatorial Programme si presenta attraverso gli occhi di chi l’ha vissuto in tutta la sua intensità: Chiara Ianeselli e Inga Lāce.
Sono passati due mesi dalla chiusura delle due mostre di fine corso. La tua prima memoria del de Appel Curatorial Programme?
Il primo ricordo relativo al corso si colloca ancora prima dell’inizio ufficiale, il 22 agosto dell’anno scorso. Sei curatori riuniti in un caffè un po’ fatiscente a nord di Amsterdam: racconti delle nostre esperienze al colloquio per la selezione, e poi tantissime cose pratiche – affitti, biciclette, permessi di soggiorno…
Ma ricordo che entro pochi minuti abbiamo inevitabilmente discusso di questioni artistiche, e poco prima di andare, quando ormai il sole stava per calare, ci siamo radunati attorno al fuoco e abbiamo parlato del progetto di Boltanski relativo alla raccolta dei battiti cardiaci.
Sì, tu hai donato il tuo ritmo, forse a Riga? Non riesco a togliermi dalla mente Les Archives du Cœur: una memoria individuale che diventa collettiva, eppure può essere vissuta di nuovo solo da una persona. Migliaia di battiti, nel suo archivio a Teshima. L’ho incontrato a Venezia, durante la Biennale: è un artista di quelli impossibili, come direbbe un caro amico. Mi piacerebbe portarti al Museo per la Memoria della Strage di Ustica, a Bologna. Mi viene in mente un’altra sera, freddissima, in cui sulla mia terrazza abbiamo discusso della lista degli artisti da incontrare nei dieci mesi del corso. Circa duecento nomi tra cui scegliere, un elenco sgraziato dove apporre crocette per una selezione tanto spietata.
È stata davvero una sorpresa, all’inizio. Ad esempio quando andavamo a visitare gli artisti di de Atelier o Piet Zwart Institute: dieci di fila, senza pause. Serve attenzione, concentrazione e pazienza. Poco dopo ci si abitua e si sviluppa una sorta di dipendenza. Poche settimane fa ho organizzato un viaggio in Belgio in pieno stile “de Appel” con visita a tre città in tre giorni e solo mostre, incontri e studio visit: anche se esausti, si continuano a raccogliere informazioni.
Sì, rimane sempre in mente un lavoro, a cui l’artista sembra particolarmente vicino, senza magari accorgersene. Spesso non si tratta solamente della questione del tempo a disposizione: mi ricordo mentre osservavo con calma lo studio di James Beckett, cercando a volte di non ascoltarlo parlare. E Navid Nuur? Il suo studio è completamente inaccessibile, ci ha invitati solo nel suo “secondo studio”. Sebbene ci fossero materiali e strumenti, si tratta in realtà di uno spazio che condivide con gli assistenti. Lui lavora in una stanza inaccessibile che non mostra assolutamente a nessuno, il suo caveau. Ricordi il suo timer? Efficacissimo: 30 minuti per e-mail, 20 per chiamate, 45 da dedicare allo sviluppo di un lavoro (allora erano i fossili di dinosauri), 25 di ricerca. Impressionante. Incontri infiniti ma talvolta infiniti incontri… Quali artisti ti è dispiaciuto non incontrare?
La tua domanda mi fa pensare alla questione recentemente discussa da diversi teorici e curatori relativa all’educazione: come sapere qualcosa di cui non sai (ancora) che vorresti sapere. Pensando agli artisti, mi è dispiaciuto molto non incontrare Stanley Brouwn, Renzo Martens o Tino Sehgal, tra i primi che mi vengono in mente. Hanno ricerche molto differenti e il mio desiderio non deriva da un supporto incondizionato del loro lavoro (ad esempio, il caso di Renzo Martens è piuttosto dibattuto). Detengono delle posizioni rilevanti, sarebbe stato sicuramente utile avere anche solo una chiacchierata con loro. Tuttavia questi provengono dalla parte “conosciuta” della famosa lista. Venire a conoscenza della pratica di altri artisti sicuramente mi ha dato moltissimo.
Ricordo le discussioni per le selezioni: una partita a scacchi in cui ciascuno nascondeva assi nella manica, per gli ultimi round e i posti disponibili. Chiaramente il de Appel ci ha aiutato a incontrare chiunque volessimo, anche privatamente, ma in gruppo, per esigenze tecniche (organizzazione e costi), una selezione era necessaria: battaglia all’ultimo sangue.
Anche tu hai una lista di incontri immaginari o luoghi che avresti voluto visitare?
Sicuramente mi è spiaciuto non poter visitare il Museo Tervuren in Belgio, chiuso per riallestimento (riaprirà solo a metà del 2017). In quel caso avremmo potuto incontrare i dipendenti e capire come un’istituzione così problematica, con una storia assai complessa, possa essere ancora messa in discussione attraverso un nuovo design del museo. Ci sono poi tantissimi collezionisti nella nostra lista immaginaria dei desiderata, i Sanders per esempio, la cui collezione era esposta allo Stedelijk durante i primi mesi della nostra permanenza ad Amsterdam. La collaborazione del de Appel con lo Stedelijk e i contatti con il Van Abbe Museum e la rete olandese ci ha permesso di incontrare moltissimi artisti e professionisti del settore. Sarebbe stato importante anche incontrare le stesse persone, ma per una seconda o una terza occasione, in altri contesti, soprattutto durante i nostri viaggi nella prima parte dell’anno. Dove sei rimasta con la mente?
Sicuramente l’esperienza in Colombia (Bogotà, Calì e Medellin) e in Brasile (San Paolo) mi ha lasciato moltissime impressioni, facendomi riflettere sugli effetti tangibili del colonialismo, che prima sembrava piuttosto una teoria nella mia esperienza. La possibilità di testare sul campo un esercizio teorico piuttosto popolare nei Paesi Baltici (ovvero l’applicazione di teorie postcoloniali a Paesi postsocialisti) è stato molto rilevante.
Scoprire le pratiche di rinnovamento urbano e sociale in Colombia ha influenzato molto la percezione del Paese: ad esempio il caso di Antanas Mockus, un matematico, filosofo di origine lituana, diventato sindaco a Bogotà. Nel 1995 tentò una rivoluzione per limitare la violenza e la trasgressione delle leggi attraverso l’impiego di interventi artistici, e in generale estremamente creativi. Una fra le iniziative più famose consistette nel coinvolgimento di mimi nella regolazione del traffico: il trasgressore sarebbe stato immediatamente ridicolizzato dal mimo in primis e poi dalla comunità. Sembra che i colombiani lo temessero più di una multa: incredibilmente il traffico migliorò notevolmente. Tu vorresti tornare in uno in particolare tra i tanti luoghi visitati?
Ci sono molti luoghi che ho esplorato da sola, come il Museo Afro-Brasiliano, nel Parco Ibirapuera, mentre alcuni di voi vedevano la Pinacoteca o finivano di visitare la Biennale di San Paolo. Ecco, mi piacerebbe tornare lì, ma con te, per discutere insieme di alcune opere. Spesso non si tratta solo di luoghi, ma di persone specifiche che potremmo conoscere meglio, artisti scomparsi o mai riconosciuti, come nel caso della splendida collezione di maschere nel Museo Afro-Brasiliano, o gli ex voto sulla parete. Persone che vorresti presto rivedere o riascoltare?
L’incontro con Charles Esche, il direttore del Van Abbemuseum di Eindhoven, o Maria Hlavajova, la direttrice di Bak in Utrecht sono stati tra gli incontri più formativi. La maniera in cui parlano delle loro istituzioni e dei problemi che altre o simili strutture affrontano – come la mancanza di finanziamenti, la scarsità delle risorse umane, la mancanza d’interesse da parte del pubblico, le pressioni dei board amministrativi in merito ai numeri, le discussioni etiche sulla provenienza di alcuni lavori, o relativamente alla necessità di collezionare – conduce la discussione su un livello teorico, che contempla la presenza di soluzioni radicali e utopiche.
Anch’io sono stata molto impressionata da questi incontri. Il potere che questi due curatori hanno conquistato nel loro desiderio di guidare un’istituzione elastica: pronta a chiudere o drasticamente cambiare la direzione in situazioni non in linea con quanto previsto. Mi ha impressionato la sensazione di enorme responsabilità verso ciò che hanno contribuito a formare e la loro apertura a farsi da parte nel caso si presenti la necessità. Sono rimasta sorpresa anche dal loro desiderio di lavorare con curatori giovanissimi, accogliendone critiche e suggerimenti, dando loro possibilità di creare e vedere. L’incontro con Jean-Hubert Martin mi ha segnata molto, per la discussione mai esaurita relativa a Magiciens de la Terre e il progetto Artempo con Axel Vervoord. Condivido la loro posizione nell’arte contemporanea: un campo possibile solo se sconfinato in altre forme e saperi di esseri umani e natura, lontana nel tempo e nello spazio. Parlando di incontri assai formativi mi viene in mente anche l’incontro con William Kentridge in un bar la mattina presto. E proprio lui mi permette di avvicinarmi alla nostra mostra di fine corso. Nella sua pubblicazione, presentata in occasione della sua inimmaginabile personale a Medellin, leggo: “Kentridge employs the concept of ‘fortuna’, which he describes as neither ‘a plan, a program, a storyboard; nor sheer chance. ‘Fortuna’ is the general term I use for this range of agencies, something other than cold statistical chance, yet something outside the range of rational control. In other words, we might understand this as a kind of directed ‘happenstance’, the engineering of luck, or a sophisticated gamble, involving both possibility and predetermination. ‘Fortuna’ alludes to a state of becoming wherein the work of art is endlessly under construction — even when encountered as a finished product by the viewer. There is a sense of discovery, rather than invention, as Kentridge has written. ‘Fortuna’ also suggests a celebration of eccentricity that supports the works’ political engagement: ‘This reliance on ‘fortuna’ in the making of images or text, mirrors some of the ways we exist in the world, even outside the realm of images and texts”. “Ingegneria della fortuna, un gioco d’azzardo sofisticato, che include sia la possibilità sia la predeterminazione”: non sembra la descrizione della nostra mostra Spell to Spelling ** Spelling to Spell?
Decisamente! Ecco i nostri croupier: David Bernstein (US/EU), Francisco Camacho (Colombia), Alberto De Michele (Italy), Christian Fogarolli (Italy), Ola Lanko (Ukraine), Martin La Roche (Chile), Myriam Lefkowitz (France), Charles Matton (France), Robertas Narkus (Lithuania), and Ossip (Netherlands).
Chiara Ianeselli
http://www.deappel.nl/about/news/newsitem/?id=204
http://www.deappel.nl/visit/programme/activity/?id=931
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