È come se tutto si riducesse a un atto puramente ottico, come se – nonostante il fatto che dello stesso stand, della stessa opera, dello stesso video circolino già in Rete o in tv migliaia di immagini – esserci andati di persona, lì, a “vederlo/a” fosse una sorta di controprova, una “testimonianza”.
Ma i cosiddetti testimoni oculari, anche se in buona fede, molto spesso si sbagliano, come dimostrano numerosi casi giudiziari di ieri e di oggi. Più di un secolo fa, un grande psicologo come Hugo Münsterberg, autore del primo studio sull’estetica del cinema e maestro di Gertrude Stein, a proposito dell’attendibilità della memoria visiva dei testimoni oculari scriveva che “la fonte dell’errore inizia, naturalmente, prima della ricostruzione dei dati. L’osservazione stessa può essere difettosa o illusoria; associazioni mentali erronee possono invalidarla; pregiudizi possono interpretare erroneamente l’esperienza vissuta; suggestioni possono falsificare i dati dei sensi. […] Tutti ben sanno che ci sono persone che, in certe condizioni, vedono quello che si aspettavano di vedere” (On the Witness Stand, 1908; di recente tradotto e curato da Romolo Giovanni Capuano, Sul banco dei testimoni, Edizioni Melagrana).
Se questo è vero in ambito giudiziario (come purtroppo hanno dimostrato in anni recenti gli psicologi forensi), non dovremmo sollevare le stesse riserve e le stesse cautele quando si tratta di testimonianze “spettatoriali”? Invece di continuare a chiedere “se” uno ha o non ha visto una certa “cosa” (opera, mostra, padiglione…), non sarebbe più importante iniziare a domandarsi “che cosa” uno ha veramente visto?
Persino nei luoghi che istituzionalmente sarebbero deputati a “mostrare” l’arte, talvolta l’ambiguità dell’oggetto esposto regna sovrana. In questa foto scattata alla Pinacoteca di Brera, ad esempio, si vede un quadro che (certo in nome di una lodevole politica di “esibizione” della funzione laboratoriale del museo) viene esposto durante le fasi del suo restauro. Raccontare che cosa si vede, però, diventa problematico: si vede il quadro, sì, ma anche lo scanner che lo circonda per restaurarlo, colui che lo manovra e persino, sui monitor di controllo, le immagini ingrandite dello stesso oggetto. In altre parole, per renderlo meglio “visibile”, l’oggetto del desiderio scopico viene virtualmente ingrandito e manipolato, per cui lo stra-vediamo in modi, forme e proporzioni che lo decontestualizzano, lo moltiplicano, lo eccedono, rendendolo alla fine quasi (in)visibile.
È forse per questo che tanto tempo fa Duchamp si prese gioco dei testimoni oculari dell’arte: nel suo Grande Vetro, infatti, dipinse delle tavole come quelle usate dagli oculisti, invitando lo spettatore a fare, prima di tutto, una sorta di test visivo. A diventare, insomma, un “témoin oculiste”.
Marco Senaldi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #25
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