Dolomiti Contemporanee. Il bilancio del quinto anno
Per sapere tutto, ma proprio tutto, su Dolomiti Contemporanee – sull’edizione 2015 e sull’intero progetto – non dovete far altro che leggere questa intervista con Gianluca d’Incà Levis. E affrettarvi in direzione nord-est, perché il primo appuntamento importante è domani, il 13 agosto, a Forni di Sopra.
Cominciamo dall’inizio, ovvero dal titolo. L’edizione 2015 di Dolomiti Contemporanee (DC), la quinta, va sotto il nome di Terraformazione: spiegaci.
Terraformazione è un concetto fantascientifico, che vien dalla cosiddetta ingegneria spaziale, e fa brulicare un certo immaginario cosmologico nerd. Terraformare significa modificare l’atmosfera di un pianeta alieno, inabitabile e ostile, per renderlo adatto a ospitare l’uomo. Terraformare significa quindi ricondizionare lo spazio.
DC fa questo: riconosce il valore (senso) di luoghi che non son più spazi, in quanto questo senso l’hanno perduto, e ora giacciono, inerti o in precessione, come in attesa di tornare a pulsare, pare a noi. Questi luoghi si sono spenti, la loro atmosfera non è più respirabile. Pur mantenendo inalterati i propri valori e qualità, si sono fermati. Queste loro caratteristiche di valore vanno dunque rigenerate, perché essi tornino, in concreto, a corrispondere al proprio potenziale, integro, latente. La tecnica che si adotta è, appunto, la terraformazione culturale.
Spiegaci ancora, anche se cominciamo a capire…
Gli strumenti più concreti che si possano utilizzare sono la cultura e l’arte contemporanea, insieme all’attivazione di reti di sostegno e spinta e alla costruzione di strutture e sistemi strategici che facciano comunicare e integrino tra loro queste reti, diverse ed eterogenee.
Chi sono (o dovrebbero essere) gli artisti, i curatori, i critici, gli uomini della cultura, se non degli esploratori di spazi, con ciò ancora intendendo sperimentatori del senso? Proprio come i cosmonauti. Ecco dunque il concept culturale della stagione DC 2015. Che si riflette nella campagna di comunicazione, che propone una serie di soggetti nei quali i consueti stereotipi alpini vengono integrati ai contesti pop-spaziali. Astronauta e cervo. Volpe e Pelmo. E si lavora all’interno di questi siti spaziali che sono bombe inesplose, dense di energia, ordigni trofici, che vanno esplosi.
Parliamo del Progettoborca. Il villaggio ormai è tornato vivere, e quest’anno avete inaugurato i nuovi uffici che hanno anche un bookshop, una rivista, i lavori degli artisti in residenza. Facci un quadro generale.
Il sito straordinario di Borca (rinominato Base Spaziale Borcia, in citazione della Base lunare Alfa di Spazio 1999) è ormai, insieme all’astronave di Casso (il Nuovo Spazio), il più strutturato cantiere di sperimentazione culturale e artistica di DC.
Da un anno è attiva qui una residenza internazionale: ottanta gli artisti già passati, un quarto dei quali hanno già prodotto riflessioni e opere. Mentre altri quaranta lo faranno tra agosto e ottobre, avvicendandosi continuamente. Ognuno di loro si appropria di un pezzo della storia, della morfologia culturale, della realtà fisica, di questo spazio eccezionale, utilizzando i materiali originari, per metterlo in risonanza, rimettendone in circolazione l’energia, altissima. Ogni opera è un’opera, e al tempo stesso una parte del meccanismo di rigenerazione attivato da DC sul gigantesco complesso dormiente, e in particolare dell’edificio della Colonia, che sta diventando una cosa molto diversa da una rovina contemporanea, e anche da un polveroso museo, e, piuttosto, una stazione spaziale sperimentale, come abbiamo detto.
Come si fa a mandare avanti una cosa così… spaziale?
Il Gruppo proprietario del Villaggio (Minoter-Cualbu) sostiene il progetto. Il sito si determina e struttura ogni giorno di più, si muove e cambia: i nuovi uffici, il bookshop, le capanne-atelier, i laboratori, le ville e il campeggio, e molte altre strutture, sono state attivate per sostenere questo grande cantiere, per alimentarlo e crescerlo.
Tutto questo lavoro si fa grazie al gruppo di DC (venti persone, tra cui diversi stagisti e tirocinanti), ai quasi trecento partner, privati e pubblici, che compongono la nostra struttura delle reti, e ci aiutano a realizzare progetti, programmi, opere, e al territorio stesso, che entra nel progetto da molte parti e porte (laboratori didattici, coinvolgimento di scuole, comunità, volontari, enti locali, sistema produttivo, media ecc.).
E la rivista?
La rivista (La testata) fa parte del meccanismo di comunicazione, ed è una sorta di house-organ di Progettoborca, nella quale trovano posto i contenuti, le idee, i progetti e i programmi. Nel website www.progettoborca.net si raccoglie tutto, compresi materiali d’epoca ed immagini storiche del sito.
Dall’11 al 18 agosto a Borca c’è il Padiglione Slovenia. Cosa significa? Siete diventati come la Biennale di Venezia?!
Diamine, spero proprio di no! La Biennale non ci piace più, infatti. La Biennale non c’è nemmeno più, pare a me, se non per brandelli, bende sfatte attorno ai Padiglioni stagliati lì, per nulla o per poco (intendo poco valore), nell’afosa palude miasmatica – la palude del sistema dell’arte in questa Italia precipite, intendo. La Biennale, quale meccanismo culturale, è un vettore abbandonato, direi, nave fantasma, popolata di colorati pupazzi olografici evanescenti. Mentre i siti abbandonati di cui ci occupiamo noi, guarda un po’, sono intatti, totipotenti.
Non vorrei sembrare ingenuo se dico che la Biennale, come ogni grande piattaforma artistica e culturale, non dovrebbe limitarsi a essere una fiera volgare e un salotto privato, ma un cantiere appunto, un luogo della sperimentazione. Invece, è il luogo (mica più uno spazio) delle relazioni mercantili, delle cautele, cure e arguzie curricolari e politico-culturali. Ecco perché la maggior parte dei Padiglioni sorprende e delude (sorprende tanta delusione).
E allora questa scelta dei padiglioni nazionali?
Abbiamo deciso di iniziare a Borca con il format delle partecipazioni nazionali (anche) per dimostrare come la ricerca vada coltivata all’interno di contesti forti, stimolanti, possibilmente nutriti da intenzioni e slanci e progetti costruttivi ed autentici.
Il Padiglione sloveno è il primo, questi artisti son pionieri. Il Padiglione sloveno potrà essere costituito da uno spazio di un centimetro per un centimetro. Da una nana bianca, o da un buco nero.
Padiglione è un vocabolo piuttosto enfatico e solenne, che fa pensare oggi, più che a una farfalla, a un Mausoleo (o a un Museo). Abbiamo usato questo termine in modo ironico e provocatorio. Cos’è un Padiglione? Un austero, aureo pitale, o uno spazio delle sperimentazioni? Se è la seconda cosa, può benissimo esser vasto un centimetro per uno. E Borca è il luogo ideale per attivarlo. Borca è viva. Non un piedistallo. L’ennesimo cantiere.
C’è poi il Nuovo Spazio di Casso, legato a doppio filo al concorso Two calls for Vajont. Cosa farete quest’estate nello spazio e com’è andato il concorso?
Lo Spazio di Casso è uno dei siti complessi di DC. Ovvero uno degli spazi che non ci siamo limitati a usare per un breve periodo, lasciandoli poi, dopo aver fornito loro uno stimolo rigenerativo, al loro destino.
Nel 2012, riaprendo l’ex scuola, chiusa da mezzo secolo, abbiamo iniziato a lavorare a un’idea chiara quanto difficile: immaginare un’identità culturale nuova per questo Spazio e per l’intero contesto (fisico, storico, sociale, umano) del Vajont, che fosse funzionale alla riflessione, al pensiero, alla vita, alla storia. Lo Spazio di Casso è un cantiere di idee, un ragionamento sul paesaggio, che viene condotto attraverso l’arte contemporanea, alla quale si attribuisce una responsabilità reale: essa è lo strumento attraverso cui si può e si deve riflettere; ha la capacità e di dire le cose e di modificare le inerzie.
E da qui il concorso…
Il concorso Twocalls non è che una manifestazione di questo semplice assunto di base: l’arte è indispensabile, cambia le cose, va portata nei luoghi della crisi e del conflitto, è strumento di consapevolezza e prassi d’impegno. Non serve a riempire i Musei o le Biennali (di oggi). Serve a muovere gli spiriti e i cervelli, e a spostare gli assi di rotazione.
A luglio, la giuria (Alfredo Jaar, Marc Augé, Pier Luigi Basso Fossali, Angela Vettese, Maria Centonze, Cristiana Collu, Marcella Morandini, Gianluca D’Incà Levis) ha stabilito quali progetti saranno realizzati e premiati: Andrea Nacciarriti, Dimitri Giannina, e poi Mahatsanga Le Dantec e Micol Grazioli, Daniela Di Maro, Monica Biancardi. Ci vorrà un anno per realizzare le opere: il percorso burocratico e il cantiere, in particolare quello sulla Diga del Vajont, sono cosa piuttosto complessa.
Nel frattempo Twocalls cambierà, trasformandosi da concorso in piattaforma aperta, con molte altre iniziative e cose, di cui diremo a breve. I concorsi (di questo genere), come l’arte e la cultura, non servono a vincere premi, ma ad attivare processualità critiche, a proiettare luci sulle ombre.
Domani 13 agosto c’è la seconda edizione della giornata di studio e confronto Paesaggi Contemporanei. L’anno scorso la presenza di punta è stata quella di Marc Augé, mentre quest’anno ci sarà Pierluigi Sacco, nella duplice veste di economista della cultura e dj. Come funziona questa piattaforma? Quali sono gli obiettivi?
Paesaggi contemporanei è uno strumento di riflessione sul paesaggio, ogni paesaggio. Il paesaggio è lo spazio dell’uomo, creato e gestito dall’uomo. L’edizione di quest’anno è incentrata su Le geografie dei paesaggi culturali ed economici. Tra gli ospiti di questa giornata, che si svolge nel Comune di Forni di Sopra, nelle Dolomiti friulane, ci sono Giannola Nonino (Grappa Nonino), Antonio De Rossi (fresco vincitore del Premio Rigoni Stern con il libro La costruzione delle Alpi).
Parleremo dunque di paesaggi fisici, umani, sociali, economici e culturali, da diverse prospettive, che saranno messe a confronto. Parleremo di come economia e cultura non siano due concetti, ma uno solo. Giannola Nonino racconterà la grande impresa di famiglia, un’impresa economica e culturale: la Grappa Nonino è un brand mondiale, nato da una vigna, dal territorio, da un paesaggio.
Pier Luigi Sacco ci racconterà invece le teorie dell’economia culturale. E poi verrà con noi a Borca, a terraformare culturalmente questo grande spazio del progetto. Perché un grande economista della cultura farà un dj-set di musica cosmica? Perché è un uomo curioso, vitale, attento e presente. Un esploratore degli spazi, non un ribaditore di dogmi e concetti fossili. Il 16 agosto dunque, a Borca, il suo dj-set nella spettacolosa gabbia dell’orso sarà una cosa nuova, come tutte quelle che proponiamo qui. Roberto Paci Dalò lavorerà con lui, su un live-set. Insomma, un’altra cosa da vedere, in questa montagna fantascientifica di DC 2015.
Arriviamo infine alla novità di quest’anno: il nuovo cantiere, l’ex Cartiera di Vas. Come sarà attivato e da chi?
Lavorare su più siti contemporaneamente è una dichiarazione: si dice così che nessuno di essi, per quanto eccezionale, è il fulcro del progetto. Il fulcro, ancora una volta, è il paesaggio. Lo spazio del paesaggio direi, a questo punto. I siti, straordinari, creano un ritmo nel paesaggio, un ritmo storico e fisico, lo trapungono. Sono stazioni di posta e d’incontro per i viaggiatori e pellegrini che lo attraversano, che lo esplorano.
L’ex Cartiera di Vas è uno dei grandi siti a cui pensiamo da anni, nel nostro circolare critico, alla caccia di questo genere di prede, ovvero luoghi che furono molto e che hanno la caratteristiche per esserlo ancora, ma che oggi sono poco o nulla.
Tra pochi giorni, cinque artiste (Silvia Vendramel, Elena Carozzi, Maja Thommen, Beratrice Meoni, Philippa Peckham) saranno a Vas e lavoreranno insieme in questo complesso di edifici spettacolari, attraverso un programma di residenza. Il loro lavoro (Paper weight), verrà presentato il 30 agosto. A brevissimo daremo notizie su questo progetto, che continuerà poi con altre iniziative e altri artisti.
Lo proviamo a fare un bilancio quinquennale? Come sono cambiati i luoghi dal 2000 a oggi, e come sono cambiate le persone intorno ad essi, soprattutto?
Nel 2011, quando siamo partiti, eravamo soli, nessuno sapeva nulla di noi, tutto era nuovo, la nostra energia correva già veloce. Dal primo instante, abbiamo costruito. Costruito progetti, pensieri, prospettive, immagini, e reti. Oggi, abbiamo oltre trecento partner e centinaia di altri soggetti collaborano con noi. Siamo costruttori, costruiamo i progetti, che sono solo una forma possibile delle idee nostre concrete.
Molti meri luoghi, in questo periodo, sono stati trasformati in autentici spazi, ovvero, come già dicevo, in luoghi-del-senso. Sono stati sottratti alla stupida inerzia che li attanagliava. Sono stati tolti a chi non li sapeva usare, e riconsegnati poi, riaccesi, a chi ha preso a utilizzarli. Oppure, come nel caso di Casso e Borca, sono rimasti a noi, diventando punti fermi di questa dinamica geografia delle rigenerazioni e del pensiero in azione, stazioni di lavoro e di attacco.
Per quanto riguarda le persone, cioè a dire noi e gli altri, tutto quello che facciamo è per loro.
Son tipi vari, le persone. Ogni giorno, a Casso e a Borca, in questi luoghi estremi della montagna, vengono persone, spesso da molto lontano, a vedere, capire, partecipare. Questi scenari sono per loro, e dentro a queste macchina-nel-paesaggio ci siamo noi, a spingere e premere e pensare e discutere, con ognun che sia aperto all’intendere. Gli altri, li mandiamo via in fretta (chi non vuol capire le cose, non ci interessa: è un nostro handicap).
E quelli che arrivano da molto vicino?
Le persone che c’erano già, gli abitanti, i residenti: anche loro cambiano, insieme a noi. Le relazioni con le comunità (positive e negative) sono importanti quanto quelle con gli artisti e con il pubblico esterno: le persone di dentro, e le persone di fuori. In fin dei conti, tutto quanto facciamo serve solo a mettere in contatto persone diverse, ovvero a far incontrare i paesaggi (anche le persone sono paesaggi, anzi, sono i paesaggi primi). In questo senso, il progetto è una sorta di membrana, un tessuto connettivo.
L’arte è una cosa semplice: serve a cambiare le cose. Un artista vede una cosa, la fa sua e la rende, attraverso l’intelligenza personale del proprio sguardo. Nessuna cosa è ferma, nessuna montagna immobile, l’artista-esploratore-di-spazi ridiscute sempre ogni cosa, cambia sempre tutto. L’arte cambia le persone dunque, e quali? Quelle mobili. Quelle che, in potenza, eran già cangianti. Per tutti gli altri, rimane sempre la televisione d’agosto.
Marco Enrico Giacomelli
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati