Hotel Santa Chiara. Venezia e i committenti mediocri
Poche idee, chiacchiere, burocrazia, cattiva politica, integralismi, incompetenza. E così a trionfare sono soluzioni mediocri. Eppure, per il caso dell'Hotel Santa Chiara a Venezia, modalità più intelligenti erano dietro l'angolo. Secondo intervento sull’affaire che sta infiammando – come al solito – le pagine culturali dei quotidiani agostani.
TUTELA NON EQUIVALE A QUALITÀ
Non è un cubo mostruoso, come vogliono farci credere i giornali e gli inconcludenti conservatori del guai a chi sposta una pietra (come Salvatore Settis e la Repubblica alfieri di un perbenismo piccolo borghese che, quello sì, ha allontanato gli italiani dalla cultura e dell’arte in maniera generazionalmente irrimediabile). Ma non è nemmeno un bell’intervento, in un contesto particolarmente complesso, perché di passaggio e frizione tra la città storica e il novecentesco piazzale Roma in cui transitano automobili, tram e bus.
Si tratta invece di un’occasione mancata, l’ennesima, in cui la soluzione finale adottata dimostra l’incapacità della politica, dei funzionari del Comune e Soprintendenza e della stessa proprietà dell’edificio, di imporsi come committenza di livello. Tanto più perché rispettare le complesse, intricate e farraginose – ma, si badi bene, necessarie – leggi di tutela del nostro patrimonio non è certo garanzia di risultati di qualità. E così il risultato finisce per scontentare tutti, in primis coloro che credono, come noi, che invece la buona architettura serva a fornire soluzioni intelligenti e realmente contemporanee.
UNA COMMITTENZA MEDIOCRE?
Il primo errore, infatti, quando si è capito che era un diritto inoppugnabile della proprietà ampliare la sede storica dell’hotel (il progetto è stato fermo per decenni per ricorsi), è stato pensare che la selva di nostre leggi e scrupolosi funzionari responsabili di urbanistica e tutela del paesaggio – la politica, sindaco in testa, sembra essersene vergognosamente lavati le mani – potessero pervenire a una soluzione di qualità.
Dispiace dirlo, ma in situazioni non ordinarie come quelle dell’eccezionale tessuto urbanistico di Venezia (discorso analogo si potrebbe fare in molti altri casi) le leggi possono garantire la correttezza delle procedure, non la qualità del risultato. La vera qualità si ottiene infatti grazie alla cultura e al gusto della committenza: sono questi i garanti della bellezza (come dovremmo ben conoscere vedendo quello che è successo proprio nel nostro Paese a partire dal XIV secolo) e i presupposti della tutela.
Con le leggi attuali e la tendenza a percepire in forma burocratica/amministrativa il patrimonio, non saremmo infatti mai arrivati, ad esempio, agli interventi di Carlo Scarpa al veronese Museo di Castelvecchio o al veneziano Palazzo Querini Stampalia, che sono meravigliose sintesi di amore/cura per il passato e pensiero contemporaneo, citati come esempi internazionalmente. Oggi sostanzialmente nessuno avrebbe il coraggio di intervenire il quel modo. C’è poco da stupirsi se allora forniamo soluzioni mediocri alle sfide del nostro tempo.
BANDO ALLA FORMALINA
Visto lo stato deplorevole in cui versa una parte non piccola dei nostri beni culturali e del nostro paesaggio, appare ormai evidente quanto sia improduttivo e ideologico l’insopportabile estremismo conservatorista, che fa da noi tanti seguaci. Il nostro Paese non deve infatti essere collocato sotto formalina: deve essere gestito e messo in grado di sviluppare delle soluzioni che mirino a bellezza e rispetto della storia. Irrigidirsi non serve che a produrre reazioni negative e spingere a un tracotante riflusso antistato, come quello incarnato dal becero produttivismo che trova consensi a destra e manca, e di cui le dichiarazioni di Berlusconi e Renzi sono celebri esempi.
Così, alla Venezia ostaggio del passato e “fradicia di romanticismo” che piace a Settis & co., è da preferirsi una città con aperture contemporanee e buona architettura, come testimonia l’intervento di Cino Zucchi alla Giudecca.
UN INTERVENTO STONATO
Ma in questo caso, forse, alle procedure bisognava ovviare chiedendo – o imponendo – alla proprietà di fare un concorso internazionale di idee, e creando altresì i presupposti per sviluppare una discussione con urbanisti, architetti, storici dell’arte, sociologi, geografi. Insomma uscire dalla logica soprintendenziale del “no” per passare alla logica pragmatica del “sì, però…”.
La cosa, a quanto pare, non è venuta in mente a funzionari, a politici e – per quanto è noto alle cronache – nemmeno allo Iuav, la locale facoltà di architettura. E alla fine, quel cubo che stona cromaticamente con il Canal Grande, che stride con la metrica della città storica e perfino con il non meraviglioso ponte di Calatrava, ce lo meritiamo tutto, perché esprime la nostra grande e intollerabile modestia.
Daniele Capra
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