Si vuole tappare con la paglia il vuoto che si è
aperto nell’organismo dell’opera d’arte, ma per
tranquillizzarsi la coscienza si usa la paglia migliore.
Ludwig Wittgenstein, Pensieri diversi (1930)
But the last day of summer
I’ve never felt so cold
The last day of summer
I’ve never felt so old
The Cure, The Last Day of Summer
(Bloodflowers, 2000)
Dicono ormai tutti skyline – e non più, che so, la forma della città: “Lo skyline di Locorotondo” (al telegiornale, l’altro giorno).
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Un’altra scoperta nel “regno” di Castellaneta Marina: equidistante rispetto alla spiaggia della stazione e all’ultima del paese, spunta sulla sabbia un bosco surreale di tronchi chiari. Sono stati piantati qui, come ho scoperto subito dopo la nuotata, da una famiglia che sembra appartenere al futuro (padre, madre, un bambino e una bambina), tanto sembrano immediatamente sganciati rispetto al contesto, all’ambiente, al panorama attuale. La cosa strana è che, avvicinandomi, ho colto l’aspetto per così dire sacro, magico di questo luogo deserto. Mi è venuta subito in mente la saga della Torre Nera e del pistolero Roland di Stephen King.
In che cosa consisteva questa sacralità? Nella cura; nel gusto; nella pulizia; nell’ordine semplice e raffinato; nel sistema di valori sani (funzionali: cioè vivi) che emanava potentemente da questa struttura (le verticali di legno che incontrano il piano orizzontale della spiaggia: pace; assenza di caos). Questa impressione mi è stata confermata immediatamente dal “padre” quando è arrivato e ha iniziato a montare una meravigliosa, monumentale e semplicissima tenda sui tronchi: è lui che ha costruito, da solo, questo posto. Ci viene da vent’anni e lo custodisce gelosamente. A est e a ovest, il casino dei bagnanti disordinati, maleducati, inconsapevoli, attaccati disperatamente alle strutture che marciscono: “Da qui segue necessariamente che una gran parte del nostro popolo è costretta a campar la vita mendicando, rapinando, rubando, truffando, ruffianeggiando, spergiurando, adulando, subornando, falsificando, giocando, mentendo, lusingando, sbravazzando, vendendo i voti, scribacchiando, astrologando, avvelenando, puttaneggiando, bacchettoneggiando, diffamando, rinnegando Dio e altre simili occupazioni” (Jonathan Swift, Viaggi di Gulliver in vari paesi del mondo, parte IV, cap. 6).
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E puntuale come sempre, come ogni estate, arriva la mini-discussione sulla fine del postmoderno: il postmoderno è concluso, morto, spacciato, stecchito? Quando? Come? Oppure: ci siamo ancora dentro e non lo sappiamo?
Così, tra accuse molto tardive di frivolezza, fragilità, inconsistenza e difese d’ufficio, permane il dubbio su questa fine, e sul senso di questa fine. Per quale motivo non riusciamo a percepire storicamente la conclusione di un intero periodo storico durato dai trenta ai quarant’anni?
Il discorso della Scuola di Francoforte, per esempio, deve essere riscoperto oggi – dopo essere stato praticamente dismesso durante i decenni del postmoderno. Quella riflessione sull’industria culturale non può più essere liquidata come antiquata, stantia, obsoleta: quegli autori indagavano e interpretavano infatti una trasformazione nella produzione e nella ricezione culturale che è ancora in corso. Qualunque storia dell’arte contemporanea, perciò, non può prescindere da questa metodologia di indagine del contesto, e va dunque inserita costantemente all’interno di una storia della cultura e di una sociologia dei processi culturali: connettendola cioè al percorso degli altri linguaggi (cinema e serialità televisiva, letteratura, design) e degli altri habitat linguistici (media, cultura popolare). Non certo perché, come si attardano ancora oggi a spiegarci alcuni accademici nazionali, sia necessario e persino intrigante tenere insieme “cultura alta e cultura bassa” – ma proprio perché il contributo principale del postmoderno come “logica culturale del tardo capitalismo” (Fredric Jameson) è stato proprio quello di illustrare la scomparsa dei concetti di “alto” e “basso” intesi in senso tradizionale. Nell’indagare l’immaginario postmoderno e la sua decomposizione, semmai, il problema principale sta proprio nel riconoscere come il “gradiente” artistico, a partire dagli Anni Sessanta, sia sempre più basso man mano che ci avviciniamo al presente, e divenga sostanzialmente indistinguibile dal rumore bianco.
Probabilmente, dunque, occorre riconfigurare la distinzione in qualcosa che assomigli più a “buona arte/cattiva arte” o “arte vera/arte falsa”.
Del resto, la cultura popolare è la nostra cultura: è la cultura degli ultimi settant’anni. Nella pop culture troviamo gli oggetti più originali, che nutrono il nostro cervello; le opere d’arte migliori sono strettamente connesse ad essa, la riusano e la rimontano. È certamente possibile coltivare la complessità dentro e attraverso la cultura popolare: ancora una volta, il problema è che l’arte contemporanea quasi sempre la considera e la penetra in una maniera archeologica – dimenticando volontariamente che essa ha a che fare con la vita, con la morte, con la politica, con l’economia, con i processi e le pratiche sociali, con l’immaginario collettivo, con gli affetti, con gli scenari futuri, con la realtà quotidiana: “Se tu vuoi veder descritta l’epopea di tutta una civiltà, devi cercare fra le opere dei suoi esponenti più grandi, in un’epoca cioè in cui la fine di quella civiltà poteva essere solo prevista; dopo, infatti, non c’è più nessuno che la possa descrivere. E per questo non vi è affatto da meravigliarsi se l’epopea è scritta nell’oscuro linguaggio del presagio ed è comprensibile a pochissimi” (Ludwig Wittgenstein, op. cit., 1931).
Christian Caliandro
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