Biennale di architettura. L’opinione di Carlo Prati
È la volta di Carlo Prati. L’architetto e docente universitario, esperto di architettura cilena, scrive per Artribune una riflessione sulla prossima Biennale di Architettura di Venezia, che sarà curata da Alejandro Aravena.
UNA NOMINA ARRIVATA TARDI
Sarebbe stato probabilmente più efficace, dal punto di vista culturale, nominare Alejandro Aravena alla direzione della Biennale di Architettura di Venezia una decina di anni fa, quando le emergenze e le criticità del mondo contemporaneo erano già di fatto tutte in atto. Affidare le passate edizioni della kermesse lagunare ad alcune delle più famose archistar internazionali (esposizioni ineccepibili dal punto di vista della penetrabilità mediatica come Foundamentals di Koolhaas e Less aesthetics more ethics di Fuksas) non si è rivelata alla lunga una mossa riuscita, soprattutto in relazione alla definizione di nuovi paradigmi critici, teorici e politici.
A partire dall’11 Settembre 2001 di fatto il mondo si è scoperto meno sicuro, più vulnerabile e dominato da instabilità e violenza. Ed è da allora (se non da prima) che una certa parte di architetti, per evidenti motivi geografici, culturali e antropologici, si è dedicata allo sviluppo di un vettore critico e pratico in grado di rinnovare e porsi come alternativa efficace nei confronti delle istanze poste da questa difficile condizione del contemporaneo.
IL FRONTE PRIMA CHE ARRIVASSE A VENEZIA
In Libano terra martoriata da conflitti religiosi e terrorismo, Bernard Khoury realizza progetti di straordinaria forza iconica e politica (in particolare, del 1998 è il B018 Nightclub, un simbolo e un archetipo di questo status globale di instabilità); nel Giappone devastato dai terremoti (Kobe è del 1995) e dai cataclismi, Shigeru Ban realizza architetture rifugio di prima accoglienza realizzate con materiali poveri e di facile reperibilità; nelle aree sovrappopolate del SudAmerica, dalle favelas brasiliane alle periferie delle città cilene, Elemental e i suoi architetti originano e ricercano intorno al tema dell’habitat evolutivo, cioè di uno spazio abitabile mutevole ed in grado di ridefinirsi secondo le esigenze dei suoi occupanti (il primo concorso mondiale di architettura che indicono è del 2003).
Questo è anche il campo di azione di un ristretto novero di architetti europei, in primis Lacaton & Vassal (la seminale ricerca e il programma di rinnovamento dei grands ensembles Plus è del 2004) che comprendono per tempo che il “fronte” sul quale l’Occidente industrializzato si trova a combattere e da cui origina il conflitto sociale, ha per scenario la metropoli e la sua periferia più estrema (la banlieue); associazioni non profit statunitensi come Architecture for Humanity hanno dimostrato poi, anche attraverso l’istituto del concorso di idee (in particolare Mobile HIV/AIDS Health Clinic for Africa è del 2002 ), come si possa offrire una valida soluzione architettonica per rispondere alle istanze poste dalle crisi umanitarie, siano esse pandemie o centri di accoglienza temporanei per profughi e rifugiati politici.
RATIFICARE PIÙ CHE PREVEDERE
Mi pare dunque che tutto questo stia a dimostrare come la Biennale di Architettura del prossimo anno non traccerà i confini di una nuova filantropica avanguardia ancora in fieri, bensì darà finalmente conto al grande pubblico delle ricerche e delle esperienze concrete che da almeno dieci anni molti tra i più sensibili e impegnati architetti contemporanei conducono sul “campo di battaglia” globale. Colmando finalmente l’evidente divario tra mondo reale e disciplinare, divario che altrimenti sarebbe risultato ormai oltremodo imbarazzante per una istituzione pubblica così prestigiosa.
Carlo Prati
www.labiennale.org/it/architettura/
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