Carnet d’architecture. Filippo Romano
Nuova puntata, questa volta affidata a Filippo Romano, fotografo, reporter, narratore di città e di spazi urbani. Dal 2011 porta avanti un progetto fotografico su Nairobi. Qui racconta la sua idea della città e pubblica in esclusiva alcuni scatti.
NAIROBI, NUGOLO DI LAMIERE
Il mio arrivo a Nairobi è sempre avvenuto nelle prime ore del mattino. Dopo ore di volo nel buio pesto della notte del continente africano, il tempo di incrociare i sorrisi formali dei doganieri, il volto felice di un masai appeso alla parete degli arrivi mentre tiene uno smartphone in mano, la speranza infantile di ritrovare le zebre nell’aiuola spartitraffico dell’autostrada all’uscita dall’aeroporto e sentirmi, subito dopo, come in una goccia di metallo nel mare quasi immobile del traffico sterminato della città.
Alle sei del mattino, Nairobi è già un caos vitale e assordante, macchine e mezzi di trasporto di ogni tipo, “Tao bao, Tao bao!”(“tao” nello slang locale vuol dire “town”) gridano i bigliettai dagli sportelloni aperti dei minibus matatu mentre i loro mezzi, simili a vascelli pirateschi su quattro ruote, si muovono aggressivi e sguscianti nella folla di lamiere, cercando viaggiatori e sfiorando il fiume di pedoni che cammina ai lati della strada verso il lavoro nelle zone centrali della città.
Viaggiano e si muovono tutti in una nuvola gialla fatta di smog e polvere, che si abbasserà non più tardi delle undici di sera, nella quale dopo poco tempo ci si illude di essere apneisti esperti. La meta della traversata urbana è arrivare prima o poi a Mathare slum, dall’altra parte della città, per raggiungere il progetto dell’ONG Liveinslums, con cui collaboro ormai da quattro anni. Muoversi nella capitale può essere un viaggio anche di ore nei casi più disperati, ma Robert, il driver di fiducia, sa sempre come fare. Il percorso nella città è sempre un’incognita che riserva, ogni volta, la scoperta di nuove geografie urbane fatte di quartieri costruiti da poco, nuove aree industriali o nuovi svincoli autostradali sconosciuti alla maggior parte degli abitanti locali.
UNA METROPOLI MULTICENTRICA
È difficile dare un’identità precisa a Nairobi, Nairobbery per i molti che non la amano, una metropoli afflitta da problemi endemici di miseria e di criminalità che avanza espandendosi sull’altipiano in cui si trova, in modo confuso e caotico con una popolazione in continua crescita demografica, che nel 1969 contava 500mila abitanti e oggi oltre quattro milioni. I contadini continuano ad arrivare dalle campagne, scappano dalla miseria schiacciati dai giochi del neolatifondismo corporate e dalla desertificazione che anno dopo anno si mangia pezzi di territorio fino alle porte della città.
Nairobi è frammentata in enclaves, alcune istituzionalizzate come il compound delle Nazioni Unite e la sua safe zone, e le altre come Kibera e Mathare, ghetti abitati da milioni di persone che vivono spesso nel “mabati” , la lamiera in kiswhaili. Nairobi è una città che dopo l’indipendenza non ha mai realmente superato le segregazioni geografiche di epoca coloniale ma al contrario ha creato una sorta di continuità con esse, sostituendo la divisione razziale con quella dello status sociale: i poveri nelle bidonville, tra le più grandi e popolose dell’East Africa, e i ricchi nelle gated communities. La metropoli, vista da Google Maps o da un satellite, sembra un agglomerato indefinibile di piccoli grandi nuclei sfilacciati, simili al risultato malriuscito di autogenerazione di una cellula vista al microscopio. Una città dai confini invisibili ma invalicabili.
ORTOGONALITÀ CINESE
Un’area urbana simile a una nebulosa fatta di molti centri, disposti in modo caotico e sulla cui mappatura gli ingegneri cinesi stanno tracciando linee precise e sistematiche, operazioni di chirurgia urbana a sei corsie lanciate nell’infinito delle distanze africane, autostrade urbane costruite di giorno dagli operai africani e di notte dai galeotti fatti venire apposta dalla Cina. I cinesi costruiscono senza tregua e senza perdere tempo, creando vasi dilatatori nel corpo giovane di una città che già rischia la cancrena automobilistica e abitativa.
Le grandi vie, con i loro ponti pedonali imponenti come quelli di Pechino o Shenzhen, sono il primo segno evidente di un cambiamento epocale della capitale a cinquant’anni esatti dall’indipendenza dal potere coloniale. In pochi anni la città ha sviluppato degli enormi tentacoli che sono cresciuti “attorcigliandosi” lungo l’asse di queste nuove arterie stradali. Come una pianta infestante che cresce parassita rispetto al tronco di un albero per trovare spazio vitale e nutrimento, Nairobi ha generato, lungo le nuove strade, centri commerciali, palazzine e villini a perdita d’occhio, per ora semivuoti, nel nome di un mercato immobiliare giovane e aggressivo che offre comfort e status alla nuova middle class africana.
Guarda caso anche qui come in quasi tutte le economie in crescita il “mattone tira”, il capitale investe nell’edilizia cercando in tutti i modi di indovinare gusti e standard abitativi della nuova classe emergente. Succede anche qui, come in quasi tutte le economie in crescita sul pianeta, anche se questa città ha per ora una minoranza di abitanti ricchissimi e benestanti e una stragrande maggioranza che vive ancora tra le lamiere di metallo o con il cesso in comune sul pianerottolo, ma il miracolo è ormai ufficiale e quindi in divenire.
OBAMA TORNA A CASA
Alla fine di luglio, Obama in visita ufficiale ha trionfalmente “battezzato” il successo del nuovo Kenya snocciolando le cifre di un’economia in crescita esponenziale. Per un mese il sorriso di Obama è campeggiato ovunque a Nairobi, sulle facciate cieche dei grattacieli di downtown così come lungo le rotonde della Thika road, furbescamente sfruttato dalle grandi aziende nazionali che ne hanno usato la gigantografia con la scusa di dare il benvenuto al presidente.
Sorrideva ovunque Obama, atteso come un messia dal popolo, che lo ha guardato e ascoltato in religioso silenzio mentre pronunciava in televisione un bellissimo discorso carico di pathos alla nazione di origine, quasi come fosse il presidente del Kenya. Un monologo in cui elogiava l’evoluzione economica del Paese e invitava il presidente a essere più vigile sulla violazione dei diritti umani e degli omosessuali. Sorrideva ovunque Obama, anche nella vetrina del caffè del centro dove di solito bevo l’espresso e mi fermo a osservare la città che cammina. Sorrideva a Nairobi, stampato sulla glassa di una torta con la scritta welcome.
Filippo Romano
“Carnet d’architecture” è una rubrica a cura di Emilia Giorgi
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati