UNA CRISI CHE HA ORIGINI REMOTE
Che l’istituto museale viva oggi in Italia una delle sue ricorrenti crisi d’identità, è cosa assodata. Dopo la fase espansiva iniziata negli Anni Settanta del Novecento e proseguita inarrestabile fino alla soglia del nuovo millennio, con la nascita di centinaia di nuovi istituti, ha fatto seguito un breve periodo di stagnazione che ha lasciato rapidamente il posto a quella che gli economisti chiamerebbero un’evidente recessione, che non risparmia istituti con un curriculum assolutamente di livello. La sensazione è quella di un altoforno che si sta lentamente ma inesorabilmente spegnendo, con la messa in mobilità del personale e la certezza che il domani non assomiglierà nemmeno lontanamente al passato, anche recente.
Se questa sensazione appare condivisa tra gli addetti ai lavori (ma assai meno tra pubblico, media e decisori), meno lo è una analisi puntuale del come si sia giunti a questa situazione, dato di partenza necessario per mettere in atto serie contromisure. È proprio vero che tutto si può far risalite al crack della Lehman Brothers? Oppure l’approccio museologico degli ultimi trent’anni coltivava al suo interno i germi della crisi, né più né meno della finanza creativa?
LA NUOVA MUSEOLOGIA TRAVISATA
Se andiamo a ritroso e guardiamo in prospettiva storica gli sviluppi del pensiero museologico contemporaneo in Italia, osserviamo con una certa chiarezza lo scandirsi di alcune fasi a partire dagli Anni Settanta.
La prima riguarda l’affermarsi del concetto di Museo Diffuso, che oggi ci appare sempre più come una forma originale di assorbimento del dibattito internazionale sulla Nuova Museologia, ovvero sui principi di gestione del territorio come bene culturale, depauperata però di un principio chiave come quello della partecipazione comunitaria. Dieci anni più tardi il museo italiano, tardivamente rispetto al mondo anglosassone, scopriva l’orientamento al pubblico, con l’adozione di servizi aggiuntivi e di politiche sempre più inclusive che, in potenza, potevano aprire finalmente le porte a un autentico rapporto tra museo, territorio e società. Potevano, e quasi sicuramente avrebbero sortito esiti significativi, se quasi parallelamente, verso la fine degli Anni Ottanta, non fosse esploso il fenomeno dell’approccio aziendalistico all’istituto museale.
L’ingresso delle discipline economiche nel mondo dei beni culturali, per certi versi prepotente e in linea col rampantismo di quegli anni, se per un verso ha aperto al dibattito su una gestione efficiente ed efficace delle risorse e dell’azione museale, per l’altro ha rappresentato una distrazione profonda degli stakeholders dai problemi di base del museo contemporaneo e ha condotto a una totale mistificazione del suo ruolo sociale. Il museo public oriented, perciò, in Italia non è diventato quel museo inclusivo e per certi versi anche partecipativo a cui mirava la Nuova Museologia, ma – sotto la spinta del cicaleggiare sulle sorti magnifiche e progressive dell’economia dell’arte – ha portato a stravolgere la mission stessa del museo.
TAGLI CAMUFFATI DA MODERNITÀ
Si è fatto quindi spazio anche nel nostro Paese il fenomeno patologico dei supermusei e, per chi un supermuseo non poteva permetterselo, delle mostre blockbuster. Di qui l’illusione dei nostri modesti decisori locali e nazionali che, in fin dei conti, l’unico indicatore da osservare per valutare le performance di un istituto museale fosse il numero dei suoi visitatori e, dal punto di vista della mission, il suo essere funzionale al sistema turistico locale.
Questo approccio banale e semplificatorio, beninteso, non è un vulnus imputabile ai colleghi delle discipline economiche (o non solo, quanto meno), ma è l’esito di una traduzione semplicistica di teorie complesse e di studi il più delle volte accurati, probabilmente mai letti. È in piccola parte il frutto di un sentito dire, applicato nel nome di una malintesa modernità e, in parte assai più significativa, dell’interesse meschino a limitare la spesa in un campo della pubblica amministrazione poco sfruttabile sotto il profilo della clientela politica, se non il giorno delle infinite e spesso inutili inaugurazioni. Un micidiale combinato disposto che ci lascia in eredità un sistema praticamente ingestibile.
UNA RIVOLUZIONE MANCATA
Dalla volontà maturata dagli studi di Rivère e De Varine di conquistare un ruolo sociale al museo e ridargli vita conquistando nuovi pubblici, si è finito col produrre musei turist-oriented che, anche in caso di successo, hanno il più delle volte abdicato alle loro funzioni primarie di luoghi del sapere al servizio della società e del suo sviluppo.
L’attenzione smodata, anche nel recente approccio del governo, ai grandi contenitori, sembra non modificare di nulla un modello di sviluppo che appare sempre più come una pericolosissima patologia, soprattutto in un Paese come l’Italia, caratterizzato non da grandi concentrazioni di patrimonio, ma da una sua capillare distribuzione sul territorio. Un approccio che, anziché portare a una necessaria riorganizzazione, può portare a una banalizzazione e omologazione già oggi molto problematica e a un impoverimento del tessuto connettivo del territorio nazionale.
Per questa ragione, vista in prospettiva, la grande rivoluzione disciplinare della Nuova Museologia unita a quella istituzionale del museo public oriented, appare oggi una rivoluzione mancata, tristemente abortita, matrigna suo malgrado dell’attuale crisi, superabile solo ripartendo dai fondamentali e da un autentico approccio sociale al tema del museo e del suo rapporto col territorio, con la comunità di riferimento e con la società.
Luca Baldin
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