È morto Salvo. L’arte perde un grande artista
Era nato in Sicilia nel 1947 ma viveva da decenni a Torino. Aveva fatto parte del cercle dell’Arte Povera, in anni eccezionali per la città. Nella prima metà degli Anni Settanta era tornato alla pittura, con una scelta inaspettata e all’epoca poco compresa. Aveva problemi di salute da qualche tempo, ma nessuno si aspettava che ci lasciasse ieri, 12 settembre 2015.
Pensare è il capolinea.
Qui confluiscono fatti e immagini;
da qui partono immagini e fatti.
Salvo
Questo lavoro non l’ho cominciato presto, e non è nemmeno stato preceduto da una passione “amatoriale” per l’arte contemporanea. Certo, sin da piccolo mi hanno portato a visitare tantissimi musei in giro per l’Europa, ma si arrivava massimo agli impressionisti. Poi, negli anni del liceo, qualche innamoramento – Francis Bacon su tutti – ma in maniera disordinata, autodidatta.
Una delle primissime mostre d’arte contemporanea che ho visitato per lavoro e allestita in uno spazio privato, in una galleria, s’intitolava Opere 1974-2004. Era marzo, era il 2004. La galleria era Mazzoleni, in piazza Solferino. Avrei poi imparato che le mostre in galleria sono nella maggior parte dei casi molto diverse: per il tipo di location, per il numero di opere, per l’allestimento. Perché quella mostra era in realtà di taglio museale: una vera e propria retrospettiva. A presentarla era Alberto Fiz e l’artista si chiavama Salvo.
Scoprii con grande stupore che anche negli Anni Settanta c’era, in Italia, chi dipingeva. Per me l’Italia, la Torino di quegli anni era l’Arte Povera, erano gli igloo di Mario Merz e le refrigerazioni di Calzolari, le pietre di Anselmo e gli alberi di Penone. È grazie a Salvo se imparai che l’Italia era anche altro, che Torino era anche altro, che perfino l’Arte Povera era anche altro – che esistevano Griffa e Gilardi, ad esempio, e lo stesso Salvo.
Imparai grazie a Salvo come si poteva continuare a utilizzare mezzi infinitamente classici per attivare uno sguardo contemporaneo. E non solo: che lo si poteva fare addirittura restando nella figurazione. E addirittura rifacendo i classici e gli stereotipi: un Trionfo di San Giorgio (1974) da Carpaccio, un viale alberato di notte con tanto di neve e lampione (Senza titolo, 1980), una natura morta (Tredici arance, 1982), finanche Alberobello (2001).
Mi impressionavano quella pittura precisa, quei colori accesi che facevano pensare ai tramonti anche col sole allo zenit, quelle nuvole rigogliose, quel ricorrere di forme stondate (Una sera, 2002), quella calviniana leggerezza che sembrava unire l’ingenuità di Rousseau con il rigore di de Chirico. E quest’ultimo mi ritornava con insistenza alla mente quando guardavo a certe colonne e resti antichi, forse, che però stavano immersi nella macchia mediterranea, a breve distanza da un mare calmo che si intravedeva in lontananza (Capriccio, 1998).
Salvo era una persona coraggiosa e tenace. Non dovette essere facile scegliere, nel 1973, di tornare a essere pittore. Soltanto pittore. Sono scelte che si pagano in termini di visibilità, di successo. Ma che prima o poi vengono capite. Sta succedendo in questi anni proprio per Giorgio Griffa, ad esempio. Mentre Salvo attende ancora una grande retrospettiva internazionale, e se la sarebbe meritata prima di morire.
Resta però la soddisfazione di una bella antologica alla GAM di Torino, nel 2007. Dove lo ricordo un po’ schivo, timido. Dove finalmente potei vedere un’infilata delle sue Lapidi – nel frattempo avevo imparato molto sul suo lavoro – e apprezzare quanto quella leggerezza arrivasse sino all’ironia macabra di quella serie, di quelle incisioni su marmo che non potevano far altro che rimandare col pensiero alle lapidi funerarie. E prima ancora c’erano gli Autoritratti, collage in cui il suo volto compariva montato in fotografie celebri e spesso spaventose. E poi c’erano quelle mappe, quegli image-text che raccontavano di amicizie e comunanze (qui Boetti, ovviamente), ma in lui sempre legatissime al territorio: mappe d’Italia, mappe della Sicilia.
E soprattutto c’era la sua pittura, in costante evoluzione e pur sempre riconoscibile. Un metodo poetico, ecco cosa accomunava Salvo a se stesso. Per me sarà sempre quel sole che accompagnava la dedica sul catalogo della mostra alla GAM. Mancherà alla città, all’arte, alla sua famiglia (a Norma Mangione, che continua con altri mezzi la tradizione di famiglia). A me.
Marco Enrico Giacomelli
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati