Il classico, la copia e Prada. Intervista con Salvatore Settis
La mostra “Serial Classic” è entrata nella sua fase di disallestimento, progettato da OMA come evento pubblico. La rassegna ha inaugurato la nuova Fondazione Prada, mentre nella sede di Venezia sta per concludersi “Portable Classic”, mostra gemella che racconta il rapporto tra l'arte classica, le copie di epoca romana e il collezionismo rinascimentale. Abbiamo intervistato Salvatore Settis, voce eccellente dell'archeologia e co-curatore del progetto.
Serial Classic e Portable Classic: una doppia mostra dalle complesse implicazioni ermeneutiche, in cui la moltitudine di copie “attive”, non industriali, rappresenta un discorso aperto sulla fortuna di modelli artistici capaci di trasferire nei secoli una precisa immagine del mondo e soprattutto una nostalgia bimillenaria per una democrazia sorta nella polis greca e forse perduta.
Abbiamo sentito Salvatore Settis, voce eccellente dell’archeologia già direttore della Scuola Normale di Pisa, che con l’archistar Rem Koolhaas, direttore dell’ultima Biennale di Architettura di Venezia, ha allestito le due mostre gemelle – rispettivamente nelle sedi milanese e veneziana della Fondazione Prada – impostate sull’incontro tra antico e contemporaneo.
Professor Settis, questa è la sua prima mostra con una fondazione, quella voluta da Miuccia Prada, che da alcuni anni rappresenta un caso emblematico in Italia. Visto che lei ha avuto un ruolo eminente come direttore del Getty Research Institute, come giudica questa realtà?
Il mio rapporto con la Fondazione Prada ha avuto inizio quando la signora Prada mi ha cercato e proposto di curare una mostra per la Fondazione. Ho cercato di capire meglio di cosa si trattasse; avevo visto alcune mostre, in particolare a Venezia. Però ho immediatamente capito di aver a che fare con qualcosa che per l’Italia, in fondo, è sostanzialmente nuovo.
In che senso?
Non si tratta di un tipo di pseudo mecenatismo privato che, di fatto, cerca di ottenere soldi pubblici. Succede così in molti casi italiani. La Fondazione Prada, invece, somiglia molto di più a quanto succede negli Stati Uniti. Ho lavorato molti anni per il Getty Trust, nato come istituzione privata a vocazione pubblica grazie ai soldi di un grande petroliere. È un modello esemplare al quale le fondazioni in Italia dovrebbero adattarsi. La Fondazione Prada è così.
Rem Koolhaas è un’archistar, come avete lavorato insieme?
Non conoscevo Koolhaas prima di questa collaborazione, ma credo di aver trovato con lui un punto d’incontro molto interessante.
Come ha impostato la collaborazione con lui?
Credo che sia una persona geniale. Abbiamo avuto lunghe conversazioni, voleva capire il messaggio di fondo della mostra.
Professore, se ne parla molto, ma quanto è ancora possibile il dialogo tra antichi e contemporanei?
Non è solo possibile ma è necessario. Occorre soltanto vedere se si tratta di un dialogo che trova un accordo oppure no. La copia congiunge l’arte antica con quella contemporanea. L’arte antica ritorna continuamente nelle opere degli artisti di oggi. Pensi a Jeff Koons, che ha usato l’Ercole Farnese. Anche in Italia ci sono artisti che dialogano con l’antichità, come per esempio Francesco Vezzoli o Giulio Paolini.
Ci dica un’idea che ha unito antico e contemporaneo in questa mostra.
Lo studiolo, direi. Nel Rinascimento era una camera, ma poteva essere anche un mobile, uno stipo dentro cui raccogliere cose preziose. Apparteneva al nobile, al mercante, al dotto o all’ecclesiastico, veneziani o fiorentini. Celebre, è la piccola stanza degli oggetti preziosi del Duca di Urbino. Lo studiolo è il filo conduttore dell’allestimento a Venezia, sia nel senso di “stanza” che in quello di “mobile”. Avevamo un certo numero di sculture provenienti da un mobile studiolo, ma il mobile non esisteva più: lo abbiamo ricostruito in plexiglas, con una soluzione di grande impatto narrativo.
Dal punto di vista ideologico, il rapporto che c’è tra la Grecia e Roma antica è come quello tra originale e copia, lo stesso vale per il Rinascimento. Come viene trasmesso il valore culturale fino a noi? Questa mostra esalta l’utilità culturale della copia in questo senso.
Le copie qui esposte non sono mai passive. Sono copie in cui ciascun copista ha dovuto scegliere dimensioni e materiali. Anche nella copia più fedele esistono sempre delle infedeltà mentre altre volte si creano appositamente delle variazioni. Abbiamo portato a Venezia alcune elaborazioni preziosissime di uno scultore mantovano, detto “L’Antico”, che aggiungeva delle dorature ai suoi bronzetti, come sul manto dell’Apollo di Belvedere o sui capelli della Venus Felix, al fine di impreziosire l’oggetto. Ma anche il rapporto Grecia-Roma o antichità-Rinascimento non è di copia passiva, bensì di rielaborazione creativa.
Ma com’erano trattati all’epoca questi lavori?
Erano oggetti che i collezionisti amavano prendere in mano, non erano fatti per essere messi in vetrina.
Un altro emblema è l’Ercole Farnese, attorno al quale lei e Koolhaas avete creato una vera installazione monumentale.
L’Ercole Farnese ha una storia particolarmente interessante: diventata una delle grandi icone della classicità, venne riprodotto molto spesso, in tutte le dimensioni possibili. In questa mostra c’è un calco a grandezza naturale (oltre 3 metri) e 11 copie ridotte, ma avrei potuto portarne diverse centinaia. Ne esistono di misure anche triple, come quella nel grande parco del castello di Kassel.
Crede che un classico, per essere tale, si basi sulla sua capacità di divenire modello per le copie successive?
Classico vuol dire modellizzabile.
Ma come veniva intesa l’arte da coloro che noi oggi chiamiamo “classici”?
Come scrivo nel mio saggio in catalogo, nella Grecia antica, dal VI al IV secolo, si è attribuito uno statuto all’arte ben preciso. Noi oggi pensiamo che gli artisti greci fossero mossi da una superiore ispirazione, ma essi in realtà traevano spunto dalla polis. Gli artisti erano cittadini che lavoravano per i propri concittadini. Lo si vede bene in alcune copie esposte in mostra come: il corpo atletico di un Apollo, copia da un bronzo di Fidia, il Doriforo di Policleto (il cui originale era in bronzo), o il Bronzo A di Riace, la cui attribuzione più probabile è a Mirone. Sono opere prodotte nello stesso decennio e nella stessa città da tre artisti supremi che si somigliano moltissimo.
Come mai?
Quel modo di rappresentare il corpo apparteneva ad una tipologia precisa. Ogni artista si sforzava di essere più bravo dell’altro variando le proporzioni, modellando la muscolatura, esaltando le vene e levigando la superficie del corpo. Però, in fondo, tutti esprimevano un valore comune.
Quale?
Quello della polis greca, la Città-Stato capace di autogovernarsi e di far sentire i propri cittadini uguali. L’arte sorta nella polis verrà guardata in modo nostalgico nei secoli successivi, quando decaduta la polis subentreranno i Re Macedoni e poi i Romani. Così è nato il classico: la ragione per cui ha ancora valore dipende dal fatto che, da due millenni e mezzo, stiamo echeggiando quel rimpianto per la democrazia nata allora.
Il suo ultimo libro ha per titolo “Se Venezia muore” (Einaudi, 2014). Si sente preoccupato per il destino della città?
Ho scritto un libro sul destino delle città storiche e Venezia è per me l’esempio supremo, la città più preziosa del mondo e la più a rischio.
A rischio di cosa?
Di dimenticare se stessa, di diventare una città di seconde case, perdendo popolazione e giovani. Credo che occorra attuare una politica della casa, il che non significa fare del comunismo sovietico. In un paese davvero poco comunista come la Svizzera, da due anni vige una legge per la quale in tutti i comuni le seconde case non possono superare il 20%. Perché non lo possiamo fare anche noi?
Nicola Davide Angerame
FONDAZIONE PRADA
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