Il punto fondamentale di questa fraternità è la costruzione di uno sguardo comune sulle cose, sulla realtà in cui viviamo immersi, sui processi che influenzano le nostre vite e i nostri comportamenti. Troppo spesso, infatti, trascuriamo il fatto che nessun tempo nuovo – nessuno – può nascere, emergere e costruirsi pienamente conservando intatte vecchie visioni, prospettive, interpretazioni. Gli artisti, questi fratelli dileggiati e ignorati nell’Italia disgraziata di questi anni, stanno costruendo faticosamente uno sguardo sul mondo – uno sguardo che si nutre ovviamente, come è sempre avvenuto, di una tradizione vissuta intensamente e internamente e non “penetrata archeologicamente” (nessuno spazio è dunque concesso, in questo senso, a esotismi di sorta).
La forza tremenda di queste operazioni risiede dunque nella capacità di sganciarsi dalla noia di un tessuto sfilacciato e di un sistema disfunzionale, con i loro codici linguistici e con i loro tic comportamentali, per riagganciare finalmente la storia dell’arte e della cultura, l’identità italiana. Gian Maria Tosatti è un buon esempio di questo approccio.
Vorrei soffermarmi sul ciclo (una sequenza, una serie: paragonabile in questo a un romanzo di formazione in divenire, individuale e collettivo) che lo sta impegnando negli ultimi due anni: le Sette Stagioni dello Spirito. E, in particolare, sul tipo molto specifico di “stato d’animo” che queste installazioni monumentali fatte di niente riescono miracolosamente a catturare. Questa megaopera che coinvolge l’intero tessuto urbano di Napoli (un “corpo a corpo con la città”), si condensa sempre in luoghi ex, luoghi affascinanti perché marciti, che hanno avuto una funzione e un’esistenza e adesso non ce l’hanno più: la caratteristica fondamentale di questi lavori è dunque la riattivazione di spazi abbandonati. Ma qui l’abbandono non scompare, non evapora: piuttosto, si cristallizza. Non si tratta di arte didascalicamente sociale, che “fa partire” progetti di vago coinvolgimento comunitario; questa operazione – chirurgica – consiste piuttosto in una dolorosa, spiacevole attivazione del presente: visualizzazione di questo tempo profondo, e sua analisi. Autopsia.
Il tentativo riuscito di Tosatti è quello di sospendere il tempo spettrale che stiamo vivendo: costringe lo spettatore a fronteggiare le sue paure, eliminando ogni rumore di fondo, ogni simulazione, ogni spettacolo consolatorio (Io, per esempio, la prima volta che sono stato in 2_Estate sono letteralmente scappato, e ho considerato questo effetto un successo assoluto; da cultore di horror cinematografici e letterari, mi sentivo intrappolato in uno spazio infestato da cui volevo uscire a tutti i costi, insostenibile e terrificante, e questo credo esattamente fosse il senso del lavoro; poi sono risalito, e me la sono goduta appieno). Un’opera riuscita deve perciò coinvolgere integralmente l’essere umano annullando di fatto la dimensione dello “spettatore”: deve farsi percepire cioè come pericolosa.
E l’aspetto più interessante di queste opere è che esse non restituiscono propriamente alla vita gli spazi che occupano, ma restituiscono in modo più sottile la loro vita oltre la morte (la “ex-vita”, appunto), la loro condizione fantasmatica: rendono cioè percepibili le presenze, gli strati della nostra memoria conflittuale e rimossa e delle nostre vite collettive precedenti. Come ho scritto a proposito di 3_Lucifero: “Ciò che lo spettatore prova, irretito da questa esperienza, da questo apparato, da questo dispositivo, è infatti: serena, misurata, pacata tristezza. (Qualcosa di simile, per dire, a ciò che proviamo entrando nella Sagrestia Nuova di Michelangelo.) E, a mio parere, non c’è quasi nulla di così italiano – maestosa proprio perché inafferrabile, struggente proprio perché equilibrata – come questo tipo di tristezza artistica” (Gian Maria Tosatti. Lucifero, la terza delle Sette Stagioni dello Spirito).
Vengono in mente, così, sia Anna Maria Ortese, sia Dante, Michelangelo, Pasolini, de Chirico, Malaparte: riferimenti costanti di Tosatti, e al tempo stesso indizi precisi della sua idea di italianità artistica, una costellazione a partire dalla quale ridisegnare la rotta. Considerando dunque un ciclo attraverso cui un artista italiano sta finalmente elaborando la propria personale “angoscia dell’influenza” (Harold Bloom), confrontandosi con i suoi predecessori e gli ‘artisti forti’ di altre epoche – e fuoriuscendo dalla noia mortale di riferimenti up-to-date, circuiti curatorial-mercantili e frigide manutenzioni dell’esistente -, direi che è ora che di riesumare, rivitalizzare e rimettere al centro il concetto di rilevanza storico-artistica, frutto di ambizione, responsabilità e coraggio: molto importante è il fatto che esistano spiriti con cui confrontarsi e pianificare e studiare (la “fraternità”). Ecco, credo che non ci sia quasi nulla di più prezioso del vivificare la conoscenza con l’umanità; si tratta tutto sommato di capire le cose, e di agire di conseguenza: solo di questo.
Christian Caliandro
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