Lugano, il LAC e la memoria. Intervista con Giulio Paolini
Ci siamo: questo weekend inaugura a Lugano il nuovo centro per le arti, il LAC. Anzi, i weekend sono tre di fila. Ve li racconteremo live, intanto però abbiamo intervistato Giulio Paolini, protagonista allo Spazio -1, dove alberga la straordinaria collezione di Giancarlo e Danna Olgiati.
Partiamo dal fondo, da Mnemosine (Les Charmes de la Vie 9).
È una parata di tele rovesciate e valletti dipinti sul muro direttamente.
È un’opera della GAM di Torino, giusto? Ma non è esposta per l’annoso problema degli spazi mancanti…
Vero, non ha molti spazi estesi.
Un peccato, visto che la collezione è notevole.
… e non si riesce a goderne appieno.
Torniamo ai valletti.
C’è una simulazione prospettica che li incornicia. Sono realizzati da Mariano Boggia, un architetto torinese che si occupa in particolare della Fondazione Merz e che mi aiuta da molto tempo.
Ha uno studio di architettura?
È architetto ma ha scelto di non esercitare la professione. Si è appassionato ad assistere gli artisti: prima Mario Merz, fin quando era in vita, e ora si occupa del mio lavoro. A volte gli chiedo consigli anche sulla conformazione di un’opera, ma soprattutto si occupa degli allestimenti.
Sulla conformazione di un’opera?
Beh, in certi casi c’è bisogno di un occhio specialistico, tecnico. Ma è soprattutto negli allestimenti che mi sostiene. Sai, una volta facevo tutto da me, ma ora l’idea di salire su un trabattello, tirare dei fili… non ne ho più la capacità, né la voglia!
Mi pare giusto. Torniamo al ciclo di Mnemosine. Sono nove opere, o forse sei. Mi spieghi?
Il nome “Mnemosine” è costituito da nove lettere ed è madre delle nove Muse. E, senza propormelo prima, ci ho messo nove anni a chiudere il ciclo.
Non era premeditato?
No, non si può premeditare il tempo. Dicevamo?
Dicevamo di Mnemosine.
Appunto, che è la dea della Memoria. E poi Warburg ci ha perso la vita, e il senno. Mnemosine aleggia, è evocata come figura assente, ma presente nelle intenzioni.
La mostra si sottotitola Giulio Paolini d’après Watteau. Introduciamo quest’altro personaggio?
C’è e non c’è, come Mnemosine, che è una figura ideale. Quindi: in che luogo ideale collocarla? Tu sai che io ho una tastiera di memorie dell’antico che continuo a usare. Allora per parlare di Mnemosine – di cui non esiste traccia – l’ho collocata in un luogo altrettanto ideale, un piccolo quadro di Watteau che sta alla Wallace Collection di Londra e che raffigura un porticato con sullo sfondo un cielo e un giardino ideali, appunto, e popolato da figure che si dilettano di musica o della conversazione reciproca. Ecco allora che, per dar vita e luogo a Mnemosine, scelgo di ambientarla idealmente in questa situazione: Les Charmes de la vie, cioè I piaceri della vita, come se le arti e la memoria fossero ciò che ci mantiene in vita, che ci dà il piacere della nostra esistenza.
In che modo hai ambientato Mnemosine nel quadro di Watteau?
Sono andato da un pittore di scene di Cinecittà, abituato a ingigantire ogni cosa, e gli ho chiesto di portare a dimensioni di fondale di teatro quella piccola immagine di Watteau.
Ma l’immagine poi si frantuma…
Sì, ho diviso in nove parti il quadro di Watteau e poi l’ho fatto ingigantire.
Però le opere sono sei, non nove!
È vero, perché una delle opere è composta da quattro colonne e quattro tele.
Quindi una che ne accorpa quattro e altre cinque ognuna con una porzione del quadro. E fanno nove. Però vedo che la riproduzione ingigantita non è completa, per così dire…
Non ci sono le figure! Dall’immagine del giardino di Watteau, ho chiesto di togliere le figure e di lasciare gli strumenti musicali e tutto quello che è “cosa”. La scena – teatrale, perché ha preso quelle dimensioni – è così disabitata. La scena è vuota, ma noi che osserviamo siamo controfigure di attori e spettatori di quella stessa scena. Tu sai che io ho il capriccio dell’identità autore-spettatore…
Manca ancora un elemento: a terra ci sono fogli sparsi che sembrano legende di una quadreria.
Ho un libro sulla Mnemosine di Watteau in cui sono riprodotte tutte le tavole e accanto c’è uno schemino che identifica cosa c’era nelle singole fotografie. Io non intendo istruire lo spettatore, ma ho voluto mettere questo elemento, lasciare questa traccia. Come a dire: forse c’è qualcosa di riconducibile a qualcos’altro.
Ora stiamo vedendo un work in progress. Cosa cambierà ad allestimento completato?
Mentre la collezione sarà illuminata come la vediamo adesso, con una forte luce diffusa, io spegnerò tutti i neon e al loro posto metterò dei piccoli faretti, luci direzionate, deboli, per creare una sorta di penombra. Luci teatrali.
Vorrei tornare alla questione della memoria. È un nodo che tu hai affrontato in maniera ricorrente, con quella “tastiera dell’antico” a cui facevi cenno prima, ma con un approccio warburghiano, che si manifesta nel reimmaginare continuamente le tue stesse opere. Ecco, quale potrebbe essere la tua definizione di memoria?
Nella tua domanda c’è già la risposta. Perché quando tocco le questioni del passato, le riassumo, non le cito. Sono contrario all’esercizio della citazione, perché mi sembra un compiacimento specialistico. Mi ritrovo però sempre in un territorio che è quello della memoria. Penso che l’artista, l’autore, sia un intruso: per questo, ad esempio, non mi piace farmi fotografare accanto a una mia opera. L’autore è un intermediario fra la “sua” opera e quelle che l’hanno preceduta. L’autore di un’opera non ne è in effetti autore: è testimone della sua apparizione. Io ritengo che l’arte proceda per autogenerazione.
In questo quadro, quale ruolo ha la memoria?
È la capacità che la storia dell’arte ha di rilanciare se stessa. Con un guardaroba tutto nuovo, certo, ma è sempre la stessa: la storia dell’arte non cambia. L’opera d’arte, quindi, è piena di memoria, non ha altro che memoria. Gli ingredienti inediti, nuovi, che sembrano rinnovare una storia così mirante all’infinito come quella dell’arte, mal sopporta che ci siano autori troppo invadenti. Io cerco di non metterci niente di mio, anche se poi finisco col farlo: come posso non esserci? Però ci sono come spettatore dell’opera, come primo spettatore, non come autore. Non sono protagonista di un messaggio, ma testimone di una concatenazione mirabile, sempre sorprendente, ma già codificata.
Non c’è alcuna teleologia nella storia dell’arte. Non c’è evoluzione.
C’è e non c’è. Il guardaroba è sempre all’ultima moda, è sempre rinnovato, ma il corpo è quello. È immortale, a suo modo eterno. Il corpo dell’opera si atteggia sempre in modo diverso perché abbiamo questa inesausta curiosità e tensione a vedere al di là.
È una visione che mi ricorda quelle di René Guénon sulle religioni: abiti che mutano, seppur con tempi molto lunghi, su un corpo costituito da princìpi immutabili.
Mi sembra condivisibile. Nelle religioni quanto mai: cosa differisce nelle religioni rivelate? Aspetti legati al territorio, alle culture locali, ma non allo spirito puro. L’esempio della religione mi sembra… definitivo.
Ne consegue che il protagonismo dell’artista, in questo senso, è piuttosto fuori luogo.
Mi fai venire in mente – e scusa se mi autocito – un mio lavoro del 1980 che si chiamava Ritratto dell’artista come modello: il retro di una grande tela appoggiata alla parete, però fra la tela e la parete c’è una riproduzione in gesso dell’Hermes di Prassitele. Il titolo sembra paradossale, ma l’artista in questo caso è il modello: non essendoci la figura protagonistica dell’artista, c’è qualcosa – il modello di una statua antica – che lo sostituisce. Quindi figurati: per me l’arte diaristica, la confessione o il messaggio sono eresie. L’arte è qualcosa che vive grazie a noi, ma a cui non importa nulla di noi. L’arte è quel qualcosa che facciamo per andarcene da dove ci troviamo, per abitare uno spazio diverso.
L’arte come narrazione si trasforma così in una zavorra.
Diventa un pantano! Se l’artista si mette a parlare della politica, dell’ecologia e via dicendo, non ci si solleva. E invece la storia dell’arte è tutta una sollevazione.
Per tornare alla tua metafora: l’arte non può essere solo corpo, è necessario indossare abiti sempre rinnovati, ma senza spingersi fino ai monili.
Esatto. Non esibire troppo l’abito: avere l’eleganza di qualcuno che non si fa notare.
Marco Enrico Giacomelli
Lugano // fino al 10 gennaio 2016
Giulio Paolini – Teatro di Mnemosine
a cura di Bettina Della Casa
Catalogo Edizioni Casagrande
SPAZIO -1
Riva Caccia 1
+41 (0)58 8664200 / +41 (0)91 9214632
[email protected]
www.collezioneolgiati.ch
MORE INFO:
http://www.artribune.com/dettaglio/evento/47234/giulio-paolini-teatro-di-mnemosine/
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