OTTIMISTI, PESSIMISTI E REALISTI
Pubblico e privato non dialogano, e si nascondono sotto l’alibi delle diverse finalità – uno è commerciale, l’altro è sociale. Ma non è questo l’ostacolo. Si tratta solo di prospettive, di punti di vista.
Il privato deve fare capitale, remunerare il lavoro e i soci investitori: è la sua natura. Il pubblico deve offrire servizi alla collettività: deve farlo bene e senza sprechi. Quindi i servizi pubblici devono smetterla di voler essere solo abbondanti (tanti autobus, tante scuole, tanto tutto) e capillari, anche dove non c’è domanda o dove ce n’è in diversa natura e misura.
Oggi ho trovato una claim su Facebook: l’ottimista vede il bicchiere mezzo pieno, il pessimista mezzo vuoto, il realista lo rabbocca, ci mette il ghiaccio e brinda. Allora tiriamo fuori il pragmatismo e siamo realisti.
LA SOLUZIONE? DELEGA ALLA FRANCESE
C’è troppo patrimonio in Italia, e va in malora: abbandonato, trafugato, disperso. Mentre ci sono migliaia di energie, giovani e meno giovani, pronte a prendersene cura. La chimera che la pubblica amministrazione possa tenere il cappello su tutto va fugata: la tutela non è autocrazia. Come dice Patrizia Asproni, “se già iniziassimo a chiamarlo delega, alla francese, invece di concessione, il rapporto potrebbe essere paritario, reciproco e non subordinato”.
È di reciprocità che abbiamo bisogno: imprenditore privato e proprietario pubblico devono essere alleati perché ognuno svolge un ruolo e trae un beneficio dalla collaborazione. Si facessero allora censimenti seri, finalizzati non tanto a cosa si possa vendere, quanto per cosa se ne possa delegare la tutela e la valorizzazione. Con la gold rule che le modalità siano lasciate alla libera iniziativa di chi se ne prende cura e carico.
PAROLA CHIAVE: INTRAPRENDERE
Se per far quadrare i conti devono mettere più o meno servizi commerciali, la PA non deve giudicarne la sostanza ma controllarne la forma. Ovvero che non siano a detrimento dell’offerto culturale, non vi sia svilimento o mortificazione del progetto sociale.
Per il resto, chi rischia lavoro e soldi deve tenere il timone, deve intraprendere. E allora sì che l’occupazione culturale crescerebbe con numeri da capogiro, e che l’amore per il territorio, le radici, le tradizioni, la storia potrebbe trasformarsi in economia. Economia della cultura.
Fabio Severino
project manager dell’osservatorio sulla cultura
università la sapienza e swg
Articolo pubblicato in versione ridotta su Artribune Magazine #25
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