Carol Rama, un mese dopo la morte. Il ricordo di Guido Curto
Moriva il 24 settembre nella mitica casa-studio di via Napione a Torino, Carol Rama. È dunque passato poco più di un mese, e noi torniamo a ricordarla. Questa volta a scrivere è Guido Curto, che undici anni fa curò una sua grande antologica alla Fondazione Sandretto.
UNA STORIA FAMILIARE
Una cosa è certa, Carol Rama non avrebbe mai gradito un’agiografia post mortem. Così tentiamo di ricordare in modo “oggettivo” Olga Carolina Rama, in arte Carol Rama, deceduta il 24 settembre 2015, alla bella età di 97 anni, nella sua casa-studio in via Napione a Torino. Una Torino dove lei era nata il 23 marzo del 1918, quasi al termine quindi della Prima guerra mondiale. In una città che, grazie all’industria, all’imprenditorialità di banche, assicurazioni, editoria, telefonia, alta moda, radio e tv, voleva riscattarsi dall’onta di non esser più la prima, regale capitale dell’Italia unita.
E a proposito dell’imprenditorialità torinese, anche il padre di Carol Rama è un piccolo industriale “metalmeccanico” impegnato nel settore automotive, diremmo oggi, perché brevetta e produce avveniristiche biciclette unisex col marchio OLT e automobili a marchio SINTESI; anche se poi viene travolto dal fallimento della sua azienda, causato forse da scelte sbagliate, ma soprattutto dalla nascita e dall’espandersi della Fabbrica Italiana Automobili Torino, tanto da suicidarsi nel 1942 a cinquantadue anni, dopo essersi separato dalla moglie malata di “esaurimento nervoso” e per questo male oscuro ricoverata persino in manicomio.
CAROL L’APPASSIONATA
Qualcuno obietterà: ma che c’entrano questi privatissimi e dolorosi aneddoti biografici rispetto al fatto che qui vogliamo ricordare l’artista Carol Rama, precursora di tendenze contemporaneissime quali il Post-Human e il New Neurotic Realism? C’entrano eccome, perché come già avevo scritto nel 2004, in veste di curatore, nella presentazione al catalogo Skira della mostra antologica dedicata a Carol Rama dalla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, tutta la vita di Carol è strettamente connessa al suo lavoro di artista.
Lei stessa dice: “Dipingo per guarirmi”; guarire da quella difficoltà a vivere che l’attanaglia dagli anni dell’adolescenza e che l’accompagna per tutta la giovinezza. I suoi primi lavori pittorici giunti sino a noi li realizza a 18 anni, da autodidatta, come nel caso del quadro dedicato alla Nonna Carolina, con le sanguisughe al collo, eseguito nel 1936, o gli scopini del cesso del 1937, le dentiere del 1939, o Marta, “che caga”, del 1940, l’Appassionata del 1940, raffigurante una ragazza nuda su una sedia a rotelle da paraplegico, e un’altra Appassionata, sempre del ’40, dove vediamo una giovane donna sdraiata nuda su un letto da ospedale dotato di cinghie di contenzione, da manicomio.
DA CASORATI A MAN RAY
Opere assimilabili all’Art Brut, eseguite prima che intervenga l’educazione artistica di Felice Casorati: il maestro dal quale la Rama va a scuola privatamente, nel celebre studio-salotto in via Mazzini, all’inizio degli Anni Cinquanta; qui apprende l’arte della composizione che lei declina in stile astratto, fino al punto di aderire al MAC, il Movimento Arte Concreta. In quegli anni conosce le avanguardie storiche, in particolare il Dadaismo, complice la fascinazione per Man Ray che conosce di persona a Torino, città molto più internazionale e culturalmente avanzata di oggi in quei fatidici e misconosciuti Anni Cinquanta e Sessanta.
Suggestionata dai ready made, usa le camere d’aria da biciclette e le trasforma in quadri- installazioni, precocemente poveriste, dove il color rosato delle gomma diventa pelle e i tubolari affastellati sembrano viscere e falli, perché per Carol Rama il corpo è tutto. Un corpo quasi sempre amputato, o addirittura artificiale, come nelle protesi di arti, gambe e braccia, dipinte dopo averle viste dal vero negli ospedali della Seconda guerra mondiale. Non cerca mai la bellezza, ma è affascinata dai corpi sofferenti, dannati, che lei trasforma in iconografia privilegiata cinquant’anni prima del Post-Human, teorizzato da Jeffrey Deitch nell’esemplare mostra del 2002 passata tra l’altro dal Castello di Rivoli.
GLI ONORI DOPO GLI 80 ANNI
Invece Carol, per diventare davvero celebre a livello internazionale, deve attendere la mostra della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo nel 2004 e il fatto che qui la conosca Francesco Bonami, in quell’anno direttore della Biennale di Venezia: a lui va il merito di averle fatto assegnare il Leone d’oro alla carriera. Quel Leone lo riceve a 86 anni, quando è ancora in piena forma, ruggente e graffiante come non mai. Chi scrive ben ricorda la frase sussurratagli da Carol all’orecchio, riferita a una critica d’arte rampante che tentava di essere accattivante con lei: “Ma chi è questa stronza?!”, detta con tono non abbastanza tenue da non poter esser sentita dalla persona in oggetto. Così fuor di ogni agiografia aggiungiamo che Carol non fu mai tecnicamente una valente pittrice: la sua tecnica è sempre approssimativa, quasi dilettantesca, infantile, ma è proprio questa la sua forza naïf che mette in gioco la sua grande personalità di artista che fa arte non per vendere, bensì per esprimere ciò che “le ditta dentro”.
Un mix di angoscia ma anche di estrema vitalità, che la portava a frequentare con gioia gli ambienti intellettuali di una Torino coltissima tra gli Anni Cinquanta e Settanta, accanto ad amici come l’architetto Mollino, il poeta Edoardo Sanguineti, il poliedrico Corrado Levi, il gallerista Giancarlo Salzano, e tanti collezionisti, piccoli e grandi, tutti appassionatissimi di lei, che l’hanno amata, e che lei generosamente ricambiava, non tanto in senso erotico, come qualche sciocca leggenda urbana vorrebbe far credere (mi confidava sorridendo: “Sai la verità? In tutta la mia vita ho avuto meno uomini io di certe ragazzine d’oggi a 16 anni”), ma travolta da una passione per la vita e per l’arte che le ha consentito di realizzare capolavori fino a tarda età, mescolando liberamente stili, tendenze, mantenendo però sempre un leitmotiv, ossia quella autoreferenzialità che è la cifra e la forza indiscussa del suo lavoro, innestata su un’idea forte dell’identità femminile, tanto cara a Lea Vergine, una dei critici d’arte che per prima ha capito e valorizzato Carol Rama, a cominciare dall’indimenticabile mostra L’altra metà dell’avanguardia, presentata a Milano nel 1980.
UN’ARTISTA SENZA EREDI
Carol Rama non ha avuto mariti né tantomeno figli, anche se tanti artisti, anche giovani, a Torino hanno voluto mettersi sulla sua stessa lunghezza d’onda, dichiarandosi per certi aspetti suoi figli: come quei diciotto riuniti nella mostra PanoRama curata da Olga Gambari, inaugurata a Torino proprio nel giorno in cui Carol Rama moriva. A loro va un encomio, anche se lei resta di fatto unica e irripetibile.
Guido Curto
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