Cinema d’artista in Italia. Gli anni ’60-‘70

Bisogna dare atto a Vincenzo Trione, al di là delle polemiche e della considerazione in cui si tiene la persona, di aver fatto la scelta giusta a invitare al Padiglione Italia della Biennale di Venezia due artisti poco conosciuti (almeno nel nostro Paese), pionieri della sperimentazione con le immagini in movimento: il rodigino Paolo Gioli e l’italoamericano (originario di Lucca) Aldo Tambellini.

GIOLI E TAMBELLINI: DOPPIO CENTRO PER TRIONE
La scelta di portare al Padiglione Italia della Biennale di Venezia due artisti come Paolo Gioli e Aldo Tambellini è probabilmente stata dettata dalla necessità di sparigliare i giochi e rompere con i soliti nomi (Mauri, Ghirri ecc.) ormai ampiamente storicizzati dal sistema dell’arte.
Alla Biennale, Paolo Gioli (Sarzano di Rovigo, 1942) ha una sua sala dove espone nove polaroid di grande formato (50×60) con i suoi torsi maschili attraversati da interferenze pittoriche, lacerazioni, incollature, alterazioni cromatiche, affiancati alla proiezione di Immagini disturbate da un intenso parassita e Secondo il mio occhio di vetro, a sottolineare quanto la pittura, la fotografia il cinema abbiano sempre dialogato tra loro nell’universo di questo artista che ha superato i cinquant’anni di attività.

Se Gioli, tranne alcune incursioni, ha sempre adoperato la pellicola 16mm (e continua a farlo ancora oggi, realizzando un paio di film all’anno), Aldo Tambellini (Syracuse, 1930) è considerabile invece un pioniere di quello che nel 1970 Youngblood definiva “expanded cinema”, per la sua vocazione intermediale: i suoi cosiddetti “film videografici” come Black Tv (1964-68) o Black Video One e Two (1967) giustappongono immagini filmiche e create al videotape, mescolando figurazione e astrazione, tutte basate sul colore nero, “inizio di tutte le cose” ed elemento che consente l’“espansione della coscienza in tutte le direzioni”.
Se, dunque, due anni fa è toccato a Massimiliano Gioni “sdoganare” e far conoscere al sistema dell’arte Stan Vanderbeek, il creatore del movie drome, tempio del cinema espanso in senso “spaziale”, oggi è la volta di Tambellini, fautore di un uso creativo e sperimentale della televisione come strumento di comunicazione in tempo reale, la cui riscoperta si deve principalmente a Giulio Bursi che, insieme a Pia Bolognesi, ha non solo curato una personale nel 2012 alla Tate Modern con le sue installazioni, ma anche un pregevole doppio dvd con i suoi lavori. Ed è stato Bursi (presente con alcuni suoi contributi sul catalogo della Biennale) ad aver segnalato a Trione, in veste di consulente, sia Tambellini che altri due cineasti come Straub e Huillet, anch’essi inclusi in Codice Italia.

SIXTIES: GLI ANNI D’ORO DEL CINEMA D’ARTISTA
Gli Anni Sessanta, quando cioè sia Gioli che Tambellini hanno iniziato a realizzare i loro film sperimentali, restano comunque l’âge d’or del cinema d’artista. Prima ancora di Verifica incerta (1964-65), il film di Gianfranco Baruchello e Alberto Grifi che segna una pietra miliare anche nel campo del cosiddetto found footage, c’erano stati gli esperimenti di Bruno Munari e Marcello Piccardo presso la Cooperativa di Monte Olimpino a Como e i cortometraggi di alcuni artisti di quella che possiamo chiamare “scuola toscana” (il Gruppo ’70 per esempio). Ma sarà Roma la città fulcro dell’underground, anche grazie alla creazione della CCI – Cooperativa del Cinema Indipendente, nata nel 1967 e chiusa nel 1970, di cui fanno parte cineasti come Bacigalupo, Turi, Lombardi e Lajolo che, nei primi Anni Settanta, fondano insieme a Leonardi il gruppo Videobase, realizzando con il videotape reportage a sfondo politico-sociale. E poi, naturalmente, ci sono artisti come Luca Maria Patella e il citato Baruchello.
I film di questi ultimi due negli ultimi anni sono stati restaurati e/o riproposti in diverse occasioni: Patella, cui di recente è stata dedicata una retrospettiva al Macro, con il suo protolandartistico Terra animata (1967) e SKMP2 (1968), in cui si mette in scena insieme agli altri colleghi de L’Attico di Sargentini, ha dato un contributo importante alla storia del cinema d’artista nostrano. I film semi-performativi di Baruchello, invece, continuano a circolare in diversi contesti (l’ultimo al Miart) insieme alle altre sue opere, sotto forma di video a loop.

Non aderirono della cooperativa Mario Schifano e Franco Angeli, per rimanere nell’ambito romano. Il primo, autore di cortometraggi ma soprattutto tra il 1968 e il 1970 di una trilogia di lungometraggi (Satellite, Umano non umano e Trapianto consunzione e morte di Franco Brocani) che sono tra le riflessioni più significative e complesse su arte, cinema, esistenza e politica: il clima della rivolta caratterizza molto cinema del periodo. Il secondo è autore di film come Schermi (1968) e New York (1969), riportati alla luce di recente dopo oltre quarant’anni di oblio, sono basati su visioni psichedeliche frutto di esposizioni multiple. Ma il cinema assume anche forme installative, come nel caso dell’espanso Motion Vision (1967) di Umberto Bignardi, concepito per essere proiettato – per la prima volta nella famosa mostra collettiva Fuoco, Immagine, Acqua, Terra – insieme a slide, sul Rotor, schermo cilindrico motorizzato costituito da superfici bianche e specchianti che rifrangono le immagini nello spazio circostante.
Interessato al cinema è anche Nato Frascà, già componente di Gruppo Uno: con Kappa (1965) compie un vertiginoso viaggio intrauterino nell’inconscio individuale e collettivo, creando un’opera autoanalitica sul proprio essere (uomo, artista) ed essere stato (bambino). E poi ci sono gli artisti che adoperano le tecniche di animazione: da Pino Pascali a Claudio Cintoli, da Rosa Foschi (moglie di Luca Patella, con cui spesso collabora) e Magdalo Mussio (tra l’altro art director della rivista Marcatrè).

LA SCENA FUORI ROMA
Lontano da Roma girano film molti altri artisti, a cominciare dal torinese Ugo Nespolo, fiancheggiatore dei suoi amici dell’Arte Povera ma autore dal 1967 fino a oggi di oltre cinquanta film. Nespolo, animato da un esprit dada che si fonde con uno stile pop, prosegue per tutti gli Anni Settanta, girando film come Con-certo rituale (1973) o Un Supermaschio (1976). Altre figure di rilievo del cinema d’artista sono il modenese Franco Vaccari e il fiorentino Andrea Granchi. Di area milanese sono invece Gianikian e Ricci Lucchi (creatori nei primi Anni Settanta dei famosi “film profumati”, dove la visione diventava esperienza percettiva diffusa), l’architetto Ugo La Pietra, l’artista-musicista Davide Mosconi.
Dopo il 1970, con la diffusione anche in Italia dei primi portapack (videocamera e registratore portatili), il medium elettronico si affianca o sostituisce quello filmico nella pratica di molti artisti e ha inizio un nuovo capitolo di questa storia.
Ci auguriamo che nei prossimi anni il mondo dell’arte possa scoprire o riscoprire altri artisti che meritano ancora la giusta valorizzazione e storicizzazione: pensiamo al padovano Michele Sambin (pittore, musicista, uomo di teatro, videoartista e cineasta) o al napoletano Giuseppe Desiato, performer ma anche lui figura versatile, o al varesino Gianfranco Brebbia, fotografo e filmmaker con oltre un centinaio di super 8 al suo attivo, che la figlia sta ritirando fuori dai cassetti.

Bruno Di Marino

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #27

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Bruno Di Marino

Bruno Di Marino

Bruno Di Marino (Salerno 1966), docente di mass media all’accademia di belle arti di Frosinone, curatore, storico dell’immagine in movimento, dal 1989 si occupa di sperimentazione audiovisiva. Tra i volumi da lui scritti o curati ricordiamo: Studio Azzurro - Tracce,…

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