Quel miraggio della buona politica culturale
Sono ormai anni (decenni?) che nel nostro Paese, quando si parla di politiche culturali, si generano una serie di reazioni che variano tra l’infastidito e l’accusatorio. Sono ormai anni (decenni?) che tutte queste reazioni terminano sempre con un dito puntato verso qualcuno: il Governo, le Sovrintendenze, la Burocrazia ecc. Che fare dunque? L’editoriale di Stefano Monti.
ELOGIO DEL BUON GOVERNO
C’è una teoria che sempre più rapidamente sta trovando consenso persino nelle sfere dirigenti, e che vuole una politica divisa, affrancata, dalla cultura.
Politica e cultura sono tuttavia inscindibili, ma questa anelata separazione è spesso frutto di un’amarezza e di un disinganno rivolto soprattutto ai politici e non alla politica, alle politiche che essi attuano e non al ruolo di guida che un Paese deve avere nel determinare le migliori condizioni culturali per i propri cittadini.
Il buon governo non è un’allegoria sepolta tra libri polverosi, è qualcosa cui bisognerebbe tendere e pretendere. Ma c’è bisogno di chiarezza su cosa rappresenti un buon governo nell’ambito culturale.
Qui, la cultura degli ultimi trent’anni ha contribuito non poco alla determinazione di un’idea falsante del buon governo, dipingendolo spesso come una cassa da cui esigere fondi per un bene meritorio che va fornito ai cittadini.
Questo non è governo, è beneficenza.
IL GOVERNO NON DEVE FARE CULTURA
Il governo deve avere un ruolo di guida e di gestione del Paese, deve insomma stabilire quali siano le regole che permettono uno svolgimento dei giochi quanto più semplice e produttivo possibile. Perché il governo non può e non deve fare cultura: quando questo è accaduto, i risultati sono stati a dir poco catastrofici.
Il governo deve garantire ai cittadini condizioni di sviluppo certe, condivise e, soprattutto, condivisibili. È questo che fa di un governo un buon governo.
La politica degli ultimi anni (decenni?) ha utilizzato, come spesso si sente dire, la cultura come strumento di consenso. A ben vedere questa affermazione, che viene spesso scagliata nei riguardi dei politici, andrebbe rivolta a tutti coloro che fanno cultura: in uno stato democratico la politica si fonda sul consenso, e quindi il problema è piuttosto che i politici per trovare il consenso degli uomini di cultura hanno elargito fondi piuttosto che creare condizioni più forti di sviluppo, perché era questo che gli uomini di cultura esigevano.
COME USCIRE DALLO STALLO
Per uscire da questo stallo, le strade sono sostanzialmente due: aspettare, ogni giorno più delusi, che arrivi un leader illuminato, in grado di pensare al futuro del Paese a prescindere dagli interessi suoi personali e da quelli di coloro che lo hanno votato, oppure iniziare ad avere pretese differenti da rivolgere a coloro che guidano la nostra nazione.
Dopo anni (decenni?) che l’Italia della cultura segue, senza esito alcuno, la prima strada, sarebbe forse il caso di tentare l’altra strada. Il problema è che questa direttrice è difficile, stancante e time-consuming.
Ma si può iniziare con cose semplici, banali quasi, che potrebbero generare degli impatti enormi sul sistema culturale italiano.
UNA POLITICA FISCALE OMOGENEA
La politica fiscale è sicuramente uno strumento efficace per poter agevolare elementi produttivi nel settore culturale. Attualmente la questione è molto eterogenea: se assistere a uno spettacolo culturale è gravato del 10%, il prezzo sul libro cartaceo è maggiorato del 4%. Un quadro venduto da un privato è soggetto a un regime agevolato, mentre se a venderlo è un gallerista rappresenta un bene comune, e quindi tassabile al 22%.
La stessa battaglia di Franceschini sull’IVA al 4% per gli ebook è in realtà una politica di marketing: quella legge è entrata in vigore lo stesso giorno in cui una legge europea spostava l’imputabilità fiscale dal Paese del venditore al Paese dell’acquirente. Dato che i principali sellers avevano domicilio in Lussemburgo (3%), la legge europea avrebbe costretto al rialzo di molti titoli sulle piattaforme internazionali (Amazon), che detengono le più alte percentuali di vendita. Per rimanere in perfetto stile gattopardesco (incredibile che questo termine debba essere sempre così dannatamente contemporaneo), si è fatta una rivoluzione per non cambiare nulla.
LA STRUTTURA DELLA NOTIFICA
Il meccanismo di Dichiarazione di Interesse Culturale del Bene, più conosciuto come “notifica”, è uno strumento inserito nell’ordinamento giuridico italiano dalla legge Bottai, nel 1939. Da allora, la “notifica” è rimasta sostanzialmente invariata, portando alla luce un sostanziale anacronismo tra la norma e il contesto sociale che essa regola. Esistono internazionalmente molte alternative che potrebbero essere banalmente “adattate” al contesto italiano, contribuendo a determinare un contesto giuridico-economico maggiormente confrontabile con gli scenari globali che contraddistinguono il mercato dell’arte oggi.
Come funziona la notifica è noto, ed è altrettanto noto che implica una serie di restrizioni al commercio internazionale di opere d’arte, con conseguente tendenza per chi possiede un’opera “notificabile” di tendere a ridurne la visibilità, in quanto l’opera in suo possesso, una volta “notificata”, rischierebbe di perdere notevolmente il proprio valore economico, fino ad entrare in quello che è stato più volte definito un “embargo alle esportazioni”.
L’ARTBONUS
Ad oggi, l’Artbonus rappresenta un intervento fortemente mediatizzato da parte del governo per stimolare un mecenatismo culturale nei riguardi dei beni culturali. Le criticità, sia dal punto di vista formale sia dal punto di vista concreto del meccanismo, non hanno tardato a emergere e ad oggi molti degli edifici inclusi nel sito Artbonus della Arcus SpA (a completo capitale pubblico) mostrano l’etichetta: “Diventa il Primo Mecenate!”.
I mecenati, in tutto, sono stati 717 e quelli che hanno dato disponibilità a rendere pubblico il proprio nominativo (e quindi pubblicabile sul sito) sono poco più di una decina.
Il problema centrale è che sollevare anche obiezioni strutturate su questo punto è quasi inutile, dato che il meccanismo è biennale con soglia di recupero fiscale decrescente. Insomma, l’anno dell’Artbonus è passato. Ma bisognerebbe costruire uno strumento concreto e non temporaneo che estenda la finanziabilità degli edifici, e che adotti un’aliquota fissa di detrazione fiscale.
SCOMODO MA NECESSARIO
È chiaro che chi si occupa di cultura ha più piacere a dissertare sugli artisti emergenti, sulle correnti teatrali o sulle tendenze letterarie dei Paesi emergenti. È palesemente più piacevole discutere sorseggiando un bicchiere di bollicine a un vernissage che avviare un ragionamento serio su quali richieste fare ai politici, e con quali fini avanzarle.
Ma, servirà forse ricordarlo, è questo che vuol dire democrazia. Non farsi rimborsare il biglietto del treno per andare a votare.
Stefano Monti
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