Fra cinema e musica. Per documentare il mito
“Me lo aspettavo diverso”. “Sì, anch’io. Mi ha deluso”. Sono commenti ricorrenti all’uscita della sala cinematografica dopo l’ennesimo docufilm dedicato a un mito della musica. Nonostante la maestria dei montatori di trailer e la bravura dei media a creare eventi di pochi giorni al cinema (con biglietti che costano il doppio), il documentario si conferma il linguaggio meno adatto nell’impresa di restituire la forza del mito.
COSA SUCCEDE SE RACCONTI UN MITO
Il documentario è il linguaggio meno adatto nell’impresa di restituire la forza del mito. Forse perché il mito crea da sé il suo il racconto, autoriproducendosi tramite la sua immagine, ma non va raccontato: imprime la storia, ma se la storia viene ricucita, allora lo stesso mito viene declassato.
E se il mito è icona silente, e misteriosa, allora bisognerebbe evitare di fare rumore con episodi e aneddoti legati alle umane fragilità e a un privato che andrebbe custodito dagli eredi, piuttosto che co-prodotto in operazioni che spesso servono a epurare, controllare, ammiccare. Che hanno a che fare più con la morbosità del gossip che con il processo artistico, e non aggiungono nulla alla sacralità che il mito emana, sgretolandone semmai l’aura.
Il mito, infatti, non ha privato, perché il suo stesso privato è pubblico. Di fatto vive nella sfera pubblica rappresentativa, e le sue azioni, come un tempo il lever e coucher dei sovrani, e persino la morte, hanno una rilevanza collettiva. A condizione però che tra esso e l’occhio degli spettatori non si interpongano filtri: commenti, interpretazioni, voci off. Basta poco per rompere l’equilibrio e il patto di devozione visiva contratto con il pubblico.
Ecco perché vedere i filmati delle esibizioni di Amy Winehouse o Kurt Kobain o materiali di repertorio ne alimenta il fascino, mentre sentire le testimonianze di amici, parenti e manager riporta tutto alla dimensione prosaica, che in un’ipotetica collocazione spaziale si trova esattamente agli antipodi della poesia e del sogno, unica dimora del mito.
FREDA KELLY (LA SEGRETARIA DEI BEATLES)
“Ma come ha fatto?”
“A diventare la segretaria dei Beatles?”
“No, niente”
Già ne La segretaria dei Beatles (2014) di Ryan White, il germe pericoloso della noia si insinua nell’ascoltare le banalità raccontate da Freda Kelly, scelta nel 1963 per quella posizione proprio perché era una fan impermeabile quanto basta da resistere al fascino emanato dai Fab Four. Così responsabile da essere rimasta con entrambi i piedi per terra, evitando il contagio che risparmiò pochissimi al mondo, tra cui lei.
Cosa di interessante avrebbe potuto dire Freda che già non è noto? A parte che aveva buttato i materiali del fan club perché non aveva posto in soffitta e che John Lennon era gentile e simpatico? Nulla. Semmai è un fenomeno da studiare da un punto di vista scientifico, come rarità genetica. Ma non è lo scopo del regista, e infatti gli unici momenti esaltanti sono le immagini di repertorio.
COBAIN
“Di chi sono i disegni dell’animazione?”
“Non lo so, ma sono parecchio industriali”
Gli oggetti appartenuti al mito diventano cimeli, e il pensiero magico li collega senza soluzione di continuità al corpo del mito. La loro destinazione di solito è la teca di un museo o il cassetto di un collezionista. Modificarli, manipolarli, equivale a profanarli.
In Cobain: Montage of Heck (2015) di Brett Morgen (il titolo deriva da un collage musicale opera dello stesso Cobain) i diari privati e i disegni del leader dei Nirvana sono ridotti a cartone animato attraverso un’operazione che pecca di sensibilità e delicatezza verso chi in vita aveva scelto di non pubblicare le sue ossessioni e da morto non può esprimere dissensi. Nel dubbio era meglio astenersi.
Il film è prodotto dalla figlia Francis Bean Cobain. Il batterista Dave Grohl non ha voluto partecipare all’operazione.
AMY
“Però che bastardo il marito”
“Perché, il padre?”
Il mito è bello, non buono, e i tentativi di redimerlo sono vani: se l’uomo guarisce il mito, questo si spegne. Mitchell Winehouse e Blake Fielder Civil, rispettivamente padre e marito di Amy Winehouse, sono le persone su cui la cantante ha formato e poi proiettato l’idea del suo oggetto d’amore. Legato a dinamiche di tipo abbandonico, l’eros è stato un fuoco che ha alimentato e attraversato il corpo e la mente di Amy, portandola a produrre le hit che l’hanno resa celebre, intrise come sono di rehab, di Blake, di autodistruzione.
Amy Winehouse aveva un rapporto così viscerale con la musica da mettere direttamente su carta e in note ciò che le accadeva, senza alcuna trasfigurazione. Due figure di uomini tanto squallide erano funzionali affinché lei e la sua musica, almeno nella forma in cui oggi sono venerate, potessero esistere. E allora appare come un paradosso buonista/cinico da parte di Asif Kapadia calcare l’obiettivo su quegli aspetti di vita, seppure malata, di cui il mito si è nutrito per diventare tale. E usare il documentario per accendere nello spettatore moti d’indignazione ipocriti, perché ognuno di noi sa in fondo che quelle precise note, quelle precise parole, sono la conseguenza di un sacrificio umano e di una disperazione assoluta.
JANIS
“Quindi tutto nasce dal bullismo?”
“Bah!”
È la tesi di Amy Berg, che incentra il suo racconto su Janis Joplin intorno alle solite pagine di diario dalla grafia incerta e tremolante, indizio di sregolatezza, e alla frustrazione derivante dall’essere stata eletta l’uomo più brutto della scuola invece che invitata al ballo da un cavaliere.
Inutile dire che le parti più emozionanti coincidono con la voce indimenticabile di Janis, con le mise trasgressive e ironiche, con le esibizioni in tv, con le immagini dei concerti, come quello di Monterey, che la consacrò in maniera definitiva. Era alcolista, eroinomane, non bella, ma non tutti gli alcolisti, eroinomani e non belli possono essere Janis. È in questo bivio che la cronaca ordinaria si divide dall’unicità del genio. E un bel film da un pettegolezzo pruriginoso.
SHINE A LIGHT: SE UN MITO NARRA UN ALTRO MITO
“Beh, è Scorsese”
“Beh, sono i Rolling Stones”
Il mito, dunque, non si racconta. A meno che a occuparsene non sia un altro mito. Accade con Shine a Light, il documentario che Martin Scorsese dedica ai Rolling Stones. In questo caso due giganti del cinema e della musica si confrontano sullo stesso piano, c’è una tensione artistica tale che il regista e la rockstar si sfidano in modo neanche tanto velato: Jagger fa i capricci e non comunica sino a poche ore prima la scaletta del concerto; e Scorsese, notoriamente scrupoloso ai limiti del maniacale, è costretto a giocare d’anticipo. E forse si vendica pure un po’, illuminando aspetti che il più delle volte rimangono irrisolti, dato che il mito è solito morire giovane. Ad esempio l’evoluzione nei decenni del rapporto con l’establishment: nel Beacon Theatre di New York, Mick Jagger & Co. accolgono con sorrisi accomodanti la famiglia Clinton, fanno foto ricordo con i nipotini di Bill e gli anziani genitori di Hillary.
Il film è un trionfo di maestria: fotografia splendida, montaggio emozionante, movimenti di macchina che accompagnano in maniera naturale la band e ne leggono compiutamente i corpi. Scorsese, da grande cineasta, non cade nella trappola degli aneddoti e delle storielle, ma si limita a registrare la potenza dell’incarnazione del rock, inserendo ogni tanto delle schegge in bianco e nero, che rimarcano sì quanto fosse bello Mick da ragazzo, ma pure che l’energia del mito non è necessariamente legata all’anagrafe.
IN CONCLUSIONE…
La Rete pullula di così tante informazioni di prima mano che il documentario, come tanti altri linguaggi, ha perso la sua funzione originale, quella di informare e magari stupire con contenuti un tempo accessibili solo agli addetti ai lavori. Un bel film richiede più che mai una capacità di sguardo in grado di sorvolare la mole di informazioni con cui oggi si è chiamati a confrontarsi. E un’autorialità che ne giustifichi il motivo d’essere.
Mariagrazia Pontorno
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati