Inpratica. Nuove noterelle sull’Italia
La cultura non ha più quasi nulla a che fare con l’esistenza concreta degli individui. Nulla a che fare con le esigenze profonde delle comunità e con le istanze dei territori, ma solo con le assurde pretese particolari di ceti minoritari. Come la mettiamo?
I was your mind, you were my, my enemy,
You were mine, I was your, your enemy,
You would mind, I was you, your enemy,
You were mine, I was your en… aaahh
Nirvana, Hairspray Queen (1992)
Occorrerebbe fare uno studio antropologico delle facce che fa la gente italiana di fronte ai potenti: di fronte al potere. Cambiano istantaneamente, infatti, espressione. Gli italiani vengono colti da stupore e ineffabile dolcezza, che si diffondono sul viso con chiarezza impressionante, terrificante. Sono di colpo tutto un miele: se un attimo prima erano nervosi, scontrosi, rigidi, quasi ostili, tutti compresi del loro ruolo della loro qualifica della loro uniforme, incontrando il potente si sciolgono. La corazza evapora, ogni schermo si dissolve, e ritornano bambini davanti alla maestra. Imbarazzati, sorridenti, un po’ timorosi ma tutto sommato fiduciosi che il Potere avrà qualche sorpresina per loro, che se si comportano bene e fanno una buona impressione il potente potrà conservare questa impressione, come una lastra fotografica umana, ritenerla e usarla nel futuro. Se sono buoni, umili, pazienti; se condiscendono, se si dimostrano sussiegosi come sempre sono e sono stati – e questa è proprio l’occasione buona per farlo vedere, forse l’unica!… – allora qualcosa di buono, di miracoloso accadrà nelle vite loro e dei loro cari…
“Molti pensano oggi di vivere in un mondo predeterminato, che segue un suo corso immutabile e prestabilito. Le decisioni passate ci hanno lasciato in eredità l’inquinamento, la spersonalizzazione e il disfacimento delle città; qualcuno ha preso decisioni per conto nostro e noi ne subiamo le conseguenze. Questo atteggiamento esprime un infantile e pericoloso rifiuto delle responsabilità…” (Michael Crichton, Il terminale uomo, 1972).
Un tema fondamentale, e per questo costantemente rimosso da ogni discorso sulla cultura, è quello legato al profondo classismo della società – anche culturale – italiana. C’è una barriera evidentissima, che impedisce di fatto in ogni modo ai ceti popolari (piccola borghesia; proletariato; sottoproletariato) di accedere ai mezzi di produzione della cultura, e anche a quelli che consentirebbero la sua fruizione (che poi, i due livelli in realtà si identificano: sono infatti la stessa cosa).
Ciò risulta piuttosto evidente (attraverso una minima osservazione antropologica dei codici di comportamento) nelle scene di “riconoscimento sociale”: sono tutti amici, bacini baciò, gli sguardi complici e teneri, quello è uno importante, uno che conta, è figlio di, marito di, voglio farmi vedere con lui e da lui, conosco suo padre. È tutto un individuarsi e un legittimarsi a vicenda: un riconoscimento reciproco. Se – caso rarissimo – si avvicina al branco uno che “non appartiene”, chi lo conosce, chi è, che vuole questo, fateci caso: scatterà immediata la freddezza, l’ostilità latente, l’esclusione: “Questo è un plebeo, un cafone: non appartiene al nostro club, non parla la nostra lingua. Puzza mentalmente e culturalmente. È troppo serio. Ma chi si crede di essere?”.
Questo ha avuto e ha ovviamente un impatto fortissimo, in termini di chiusura e di conservazione; nessuna prospettiva culturale autenticamente innovativa e trasformatrice è dunque possibile se il ceto di appartenenza di chi dovrebbe elaborarla, articolarla e diffonderla rimane uno e uno soltanto. I dispositivi di comportamento e di pensiero saranno sempre e comunque orientati, in un modo o nell’altro, solo e soltanto – al di là di ogni cambiamento di facciata – al mantenimento dello status quo, della condizione di privilegio e di esclusività (che individuano a loro volta l’esatto opposto del ruolo e della funzione della cultura).
Questa è una delle ragioni fondamentali per cui la cultura italiana ci appare oggi così inerte e distaccata dalla società, dalla vita delle persone e delle comunità. E come potrebbe essere altrimenti, se fin dall’inizio tutta la partita si gioca nei termini del posticino, della carrierina, del nido caldo da preservare, del bambino da cullare e dell’orticello da coltivare? Da tutto ciò, il 99% degli italiani sono assolutamente, irrimediabilmente esclusi: e se ne sentono legittimamente esclusi, allontanati. Conseguenza: la cultura non ha più quasi nulla a che fare con l’esistenza concreta degli individui, con le esigenze profonde delle comunità e con le istanze dei territori, ma solo con le assurde pretese particolari di ceti minoritari.
Inoltre, va ribadito con molta chiarezza un aspetto che dovrebbe essere ovvio, e che purtroppo oggi non lo è affatto (insieme a molti altri): una realtà sociale che non sappia garantire a tutte le classi sociali parità di accesso ai processi e agli oggetti culturali, ha fallito completamente la sua missione democratica: “Essi sempre umili / essi sempre deboli / essi sempre timidi / essi sempre infimi / essi sempre colpevoli / essi sempre sudditi / essi sempre piccoli, / essi che non vollero mai sapere, essi che ebbero occhi solo per implorare, essi che vissero come assassini sotto terra, essi che vissero come banditi in fondo al mare, essi che vissero come pazzi in mezzo al cielo, / essi che si costruirono / leggi fuori dalla legge, / essi che si adattarono / a un mondo sotto il mondo…” (Pier Paolo Pasolini, Profezia, 1965).
Christian Caliandro
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