Dialoghi di Estetica. Parola alla Nevercrew
Gli svizzeri Pablo Togni (1979) e Christian Rebecchi (1980) formano il duo Nevercrew nel 1996. I due street artist hanno sviluppato negli anni un linguaggio visivo riconoscibile e incentrato su elementi stilistici che oscillano tra l’iperrealismo e la costruzione di immaginari surreali in cui spiccano animali, astronauti, asteroidi, insoliti macchinari e oggetti quotidiani. Le loro opere sono visibili da Zurigo a Dublino, passando per Amburgo, Berlino, Belgrado e Milano. Li abbiamo incontrati mentre stavano realizzando “Black Machine” su una parete del Teatro Colosseo di Torino.
Nei vostri lavori sono ricorrenti alcuni riferimenti visivi che li rendono immediatamente riconoscibili. Gli animali, gli oggetti quotidiani che spesso assemblate per ottenere ingegnosi macchinari, i rimandi agli ambienti naturali. Perché scegliete proprio queste immagini?
La scelta deriva dalla nostra collaborazione che dura ormai da quasi vent’anni e in parte coincide anche con il nostro tentativo di sintetizzare dei sistemi visivi in cui cerchiamo di fare interagire gli elementi naturali con quelli artificiali. Gli animali, i frammenti di ambiente naturale, gli elementi grafici e altri elementi – come asteroidi e astronauti – ci aiutano a spostare o ad assumere un punto di vista, una prospettiva all’interno di questi sistemi. Tra gli animali figurano spesso dei mammiferi. Più volte abbiamo usato la balena e, nei nostri ultimi lavori, l’orso polare.
Gli animali, all’interno di un contenitore, sia tela o parete, sono volutamente raffigurati in modo da interagire con un macchinario, ma senza mostrare azioni definite. Le immagini che elaboriamo sono infatti il frutto di composizioni, di strutture che spesso si ripetono e che contengono appunto elementi visivi diversi che però ritornano. Nel nostro lavoro procediamo con diversi modi di comporre le immagini. Il lavoro riguarda certamente il livello della struttura generale dell’immagine, ma anche quella particolare dei macchinari che inseriamo in esse e che rappresentano in modo efficace il nostro metodo combinatorio.
Da dove proviene il vostro interesse per i macchinari?
Il macchinario è per noi un elemento particolare. Lo componiamo appositamente per ottenere come risultato un’apparenza surreale fortemente connessa al reale. Le singole parti spesso non hanno niente a che fare le une con le altre. Nei macchinari che appaiono nei nostri lavori si può infatti trovare di tutto: oggetti di uso comune, elementi organici mischiati ad altri di provenienza tecnologica (con una preferenza per l’analogico). Ma anche semplici riferimenti visivi del tutto minimali, come linee, cerchi o strutture poligonali.
Componiamo queste macchine servendoci di una struttura di base elementare, e tutte le parti che aggiungiamo comunicano poi tra loro – perché creiamo noi le connessioni – puntando a una possibile armonia. Il macchinario mira a tenere insieme più elementi diversi, permette che questi siano in collegamento, e rappresenta in un certo senso il nostro modo di lavorare insieme e la possibilità di trovare un equilibrio. È un po’ come se ciascun macchinario potesse tradurre visivamente il funzionamento di un organismo che, spesso, può anche rimanere incompiuto.
L’impressione che si ha è che i macchinari contribuiscano a svelare il processo stesso di costituzione dell’immagine. Il macchinario sembra essere una parte dell’immagine ma, allo stesso tempo, è anche la parte, quella decisiva, affinché tutta l’opera possa funzionare.
È così. Vogliamo creare delle connessioni e l’inserimento dei macchinari ci permette in molti casi di raggiungere questo obiettivo e di dare un senso generale alle nostre opere. Allo stesso tempo ci interessa creare dei giochi di proporzioni. Un po’ come quando si guarda un’immagine del nostro pianeta, poi ci si allontana e lo si vede all’interno dell’universo in cui orbita e così all’infinito.
I meccanismi possono essere descrittivi oppure amplificare l’ambiguità. In taluni casi inseriamo volutamente nelle macchine elementi che contribuiscono solo parzialmente a spiegare l’immagine o addirittura potrebbero portare del tutto a non comprenderla. A prevalere può essere la percezione di un collegamento o quella di una sintesi. Più spesso, però, si tratta di favorire un continuo cambiamento di prospettiva rispetto alle immagini che dipingiamo. Un cambiamento che nel nostro caso è garantito proprio dall’inserimento del macchinario e, soprattutto, dagli oggetti da cui è composto.
Come scegliete i componenti dei macchinari?
Gli elementi che vengono messi assieme sono importantissimi e sono scelti in modo da poter stabilire un collegamento tra i macchinari e il resto della struttura delle immagini. Ci sono elementi che compongono queste macchine e che vogliamo abbiano la semplice funzione di collegare o di stabilire una comunicazione con chi guarda, ma non di spiegare a tutti gli effetti il senso dell’opera. In altri casi puntiamo invece a inserire alcuni oggetti per offrire delle possibili chiavi di lettura rispetto all’intera opera. Il macchinario è però scomponibile in diverse parti, un po’ come se fosse un codice.
Un codice?
Un codice che produciamo di volta in volta, sulla base di un archivio di componenti che abbiamo costruito nel corso degli anni. Un vasto archivio di cui possiamo disporre scegliendo gli oggetti, le parti, che andranno a comporre i macchinari e che quindi determineranno il loro collegamento con la struttura generale dell’opera. Ogni volta che progettiamo un nuovo dipinto, apriamo il nostro archivio e selezioniamo gli elementi che più ci sembrano opportuni per ottenere le macchine che vogliamo. Ogni opera esige però elementi diversi, e noi li scegliamo o li creiamo per l’occasione (andando quindi ad accrescere la collezione). Questo garantisce che le macchine appaiano anche imparentate tra di loro, nonostante siano sempre diverse l’una dall’altra, generando una continua stratificazione temporale di opera in opera, di luogo in luogo.
Da che cosa può dipendere questa somiglianza tra le macchine?
Un elemento senza dubbio ricorrente è quello della miscelazione dei colori e della colorazione. Alcune parti della macchina spesso sono dei contenitori in cui vi sono gli stessi colori (o le sostanze) che abbiamo usato per l’opera e in molti casi aggiungiamo colature che invadono lo spazio. Questo ci permette di stabilire un collegamento diretto con il mezzo, la pittura, e di sottolineare ancora una posizione all’interno della realtà. Spesso inseriamo quindi elementi che definiscono la vita del meccanismo, che ne suggeriscono una sua possibile autonomia o utilità. In altri casi vogliamo invece essere più vaghi, così da non rendere diretta l’interpretazione del legame tra meccanismo e opera e lasciare che la relazione sia creata da chi la osserva.
Sembra che queste macchine facciano qualcosa che si può facilmente spiegare, ma guardandole nel dettaglio ci si accorge che la loro logica non è sempre così definita. Con questi interventi, con la natura bidimensionale dei meccanismi e il legame con la pittura, vogliamo giocare con un duplice aspetto dell’immagine: l’elemento tridimensionale del reale (a sua volta in forma fisica o di illusione ottica) abbinato a quello grafico e piatto, riferiti quindi entrambi a quello della materialità propria della pittura, di cui alla fine è fatta l’immagine.
Passiamo agli animali. Che rapporto c’è tra loro e i macchinari?
Negli ultimi anni abbiamo sempre cercato di stabilire un rapporto di confronto. Non vogliamo dare risalto a una disparità e nemmeno a una differenza. A noi interessa il confronto, su cui però generalmente non tendiamo a dare una risposta. Non per forza l’uno subisce l’altro o ne è superiore, puntiamo piuttosto a cercare un equilibrio.
C’è infatti un modo diverso che abbiamo di lavorare sulla rappresentazione dei macchinari rispetto a quella degli animali. Nel primo caso, lavorando alla costruzione del macchinario miriamo a rappresentare soprattutto aspetti che riguardano l’umanità e la socialità. Mentre nel caso degli animali siamo più interessati alla rappresentazione della natura e alla possibilità di simboleggiare degli archetipi. Il confronto nasce anche da questo. Un po’ come se, implicitamente, mettessimo a confronto l’uomo e la natura. La tecnologia dei macchinari permette di riflettere su aspetti umani, comportamentali, attitudinali. Le sembianze molto dettagliate e le pose degli animali rimandano invece alla natura, intesa in senso esteso anche a quella umana.
Nei dipinti della serie Imitation of Life, in Interpretative Machine, in Frequency Spectrum e anche in altre vostre opere avete raffigurato la balena. Perché questa scelta?
Ci sono diverse ragioni. La prima è che il cetaceo è un animale che ci permette di fare un discorso molto ampio sulla forza della sua immagine. Si tratta di un animale che è facilmente riconoscibile, nonostante in pochi ne abbiano mai visto uno dal vivo. È un animale irraggiungibile, molto noto ed estremamente evocativo ma del quale difficilmente si può averne una esperienza reale. La seconda ragione riguarda una questione compositiva. Si tratta di animali di grandi dimensioni che sono per noi facili da raffigurare rispetto ai loro movimenti. Sono animali che possiamo sottrarre dal loro contesto originale, raffigurandoli come se fossero immobili anche se in movimento. Questo ci permette di fermarli nel tempo, aumentando così anche l’effetto di sospensione che vogliamo ottenere.
Che messaggi volete trasmettere servendovi di queste immagini?
Dipende dai casi. Ci sono animali che rappresentano meglio di altri il difficile rapporto che abbiamo con l’ecosistema. La balena è uno di questi. Spesso usiamo la sua immagine per insistere sul rapporto tra uomo e natura. In altri casi la balena ci permette di aggiungere una riflessione più specifica. Per tanti anni, ad esempio, ha permesso all’uomo di accendere la luce. Sono state uccise moltissime balene con lo scopo di ricavare l’olio per bruciare e ottenere un’illuminazione, definendo quindi con la caccia l’economia e la struttura sociale di intere regioni.
In questo senso siamo interessati al valore visivo che può avere la balena come icona ecologista. La sua immagine trasmette un messaggio diretto, che non ha bisogno di essere troppo chiarito. In base all’immagine dell’animale che si sceglie, si riesce a richiamare l’attenzione su diversi temi noti, come se l’immagine avesse già un suo messaggio incorporato. Nel caso della balena siamo dell’idea che un rimando alla questione ecologica e al rapporto con l’uomo vi sia comunque, anche al di là di altri messaggi che potremmo aggiungere.
In questi giorni state lavorando su una parete del Teatro Colosseo di Torino per un’opera che è frutto di una vostra collaborazione con il teatro e la Galleria Square23. In quest’opera avete raffigurato un grande orso bianco, accanto al quale vi sono anche una vera sedia, una scritta al neon e uno degli immancabili macchinari che completano l’opera. Cosa rappresenta il dipinto?
Punto di partenza è stato necessariamente il contesto: stiamo lavorando sulla parete di un teatro, perciò ci interessa prima di tutto indagare il rapporto tra realtà e rappresentazione. Così abbiamo pensato di inserire uno spettatore atipico, una vera sedia che dà le spalle all’orso bianco per rivolgersi a una parte del concetto, l’insegna neon con scritto “white”. L’orso per metà è nero, come se fosse stato immerso nel petrolio, anche se non crediamo che la parte del corpo annerita rimandi forzatamente al petrolio, è un’associazione che non pensiamo sia immediata per chi vede l’opera.
Per questo abbiamo voluto immaginarci uno spettatore che guarda altrove perché non cosciente del danno, perché non sa riconoscere il disastro. In qualche modo, la sedia vuole indicare la passività. Quella stessa in cui si ritrova chi, pur essendo consapevole dei problemi dell’ambiente, non è in grado di agire per fronteggiarli. Siamo consapevoli delle cose gravi che succedono nel nostro mondo, ma non riusciamo a intervenire per impedirle. Questa è la realtà. Nella rappresentazione, e nel teatro, assistiamo a delle immagini e anche in questo caso non interveniamo. L’opera vorrebbe perciò rappresentare il senso di distacco, la condizione stessa dello spettatore.
Questo incontro tra immagine e oggetto, l’inserimento del neon, la possibilità di stabilire una relazione profonda tra la semantica dell’opera e la struttura materiale su cui è realizzata: sono tutti aspetti che rendono la vostra opera ibrida. È visiva ma, a tratti, anche concettuale. Quanto è importante il contesto urbano in cui scegliete di elaborare le vostre opere?
È fondamentale. Ci sono diversi tipi di condizionamento dovuti proprio al luogo. La struttura su cui lavoreremo, il suo rapporto con lo spazio urbano circostante e con il passaggio delle persone, come si presenta la parete. Sono tutti fattori che ci condizionano e nell’insieme impongono delle scelte di intervento ben precise non solo sul versante operativo ma anche su quello comunicativo.
E nel caso specifico dell’opera a Torino?
Lavorare sulla parete di un teatro ci ha permesso di creare una relazione ancora più forte tra la struttura dell’immagine e quello che vorremmo rappresentare con essa. A sua volta, essere a Torino ci ha influenzato rispetto a diverse scelte. Costruendo l’immagine dell’orso su questa parete abbiamo cercato di ottenere un riferimento con il punto di vista che dalla strada non permette al passante di vederla completamente. La linea scura del petrolio rimane nascosta in un ideale “dietro le quinte” che si crea nel guardare il tutto dal marciapiedi. Questo ci permette da una parte di dare risalto a quella condizione di distacco di cui si parlava prima, e dall’altra di mettere lo spettatore in condizione di dover cercare la giusta posizione per vedere completamente l’opera nella sua interezza.
Il contesto è imprescindibile anche perché ci permette di stabilire un particolare rapporto con il pubblico. In questo senso, anche le dimensioni contano moltissimo. Fare opere così grandi vuol dire essere visti, o meglio costringe lo spettatore a vedere. È un po’ come urlare anziché parlare: ti sentono per forza. Il contesto principale però è la città. In questo caso Torino, i suoi quartieri, i suoi abitanti. Ma anche la sua arte. Come dici tu, ci sono certamente dei riferimenti più concettuali e questi sono legati al teatro ma appunto anche alla città. Abbiamo usato il neon quasi come un tributo alla storia artistica della città, e anche nel macchinario abbiamo cercato di restituire alcuni elementi propri della città di Torino.
Come considerate il vostro lavoro: Street Art o Urban Art?
Dipende dalle scuole di pensiero. Chi preferisce distinguere i tipi di arte urbana definirebbe un’opera come questa che abbiamo fatto sul Teatro Colosseo un lavoro di Mural Art piuttosto che di Street Art. Sicuramente vi sono caratteristiche attitudinali (più che stilistiche) che potrebbero indicare l’appartenenza a un movimento o all’altro, ma è anche vero che con il termine “Street Art” si indica un insieme gigantesco di stili e di pratiche artistiche che si svolgono nello spazio urbano. Rispetto ad altri movimenti artistici qui oggi forse vengono indicati più un contesto e un approccio comunicativo, piuttosto che delle tematiche o delle tecniche specifiche.
Per quanto ci riguarda, è dagli Anni Novanta che dipingiamo, da quando cose così più semplicemente si chiamavano graffiti per via del mezzo e della superficie comuni (bombolette e muri) pur non trovando ancora una vera denominazione. Allora non eravamo proprio in linea con la definizione più specifica di writing o quello che era considerato il “graffito” secondo la cultura hip-hop (da cui comunque a modo nostro proveniamo), ma dipingevamo in città e ci interessava principalmente sviluppare e portare avanti un nostro percorso. Lo stesso facciamo oggi.
Davide Dal Sasso
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