Gianikian & Lucchi al Centre Pompidou. L’intervista
Dopo quarant’anni di raccolta e rielaborazione della Storia attraverso il cinema, la coppia d’adozione milanese, Angela Ricci Lucchi e Yervant Gianikian, inaugura una retrospettiva al Beaugourg. Brillante il successo di pubblico della mostra, elogi da parte di tutta la critica. Che li ha definiti cinéastes-résistants. Noi li abbiamo intervistati.
Per la prima volta in Francia, al Centre Pompidou, l’intero lavoro di Angela Ricci Lucchi (Lugo di Romagna, 1942) e Yervant Gianikian (Merano, 1942) trova il giusto scrigno di cristallo attraverso il quale mostrare il mondo al mondo e il secolo passato al secolo a venire. Alla coppia milanese di adozione, il Centre Pompidou, sostenuto dal Festival d’Automne, ha dedicato un percorso tra buio e luce, dal titolo Yervant Gianikian & Angela Ricci Lucchi: Rétrospective, un racconto iconografico che ha fatto affacciare il pubblico francese sulle loro ricerche storiche, antropologiche e politiche. Lungometraggi, video, installazioni, così come fotografie, disegni e acquerelli hanno riletto il loro approccio all’immagine, attraverso imperialismo, colonialismo, fascismo, dominazione, forme di violenza e emblemi dell’origine.
Mentre l’Espace central del Beaubourg ha ospitato un avvicendamento, tra gli altri, di acquerelli e del film commissionato appositamente, la Première salle e la Salle retrospective vede il succedersi le installazioni La marcia dell’uomo (2001) commissionato da Harold Szeemann per la sua ultima Biennale di Venezia, Imperium (2013), Terra nullius (2003), Trittico del Novecento (2002-08), installazione su cinque schermi prodotta dal Mart di Rovereto; così come delle proiezioni di Lo specchio di Diana (1996) e Pays barbare (2013).
Quale specificità ha colto la Francia, e il Centre Pompidou in particolare, con questa retrospettiva che racchiude oltre quarant’anni del vostro lavoro?
Angela Ricci Lucchi: Quando sei mesi fa ci hanno contattati, per allestire, organizzare e preparare questo omaggio, eravamo molto stupiti del grande interesse della Francia verso il nostro lavoro. La Francia del resto già lo aveva mostrato con due retrospettive al Jeu de Paume (1995 e 2008), alla Cinémathèque, proiezioni al Louvre, al Beaubourg stesso e in altri spazi. Per non parlare delle produzioni di Arte e di Les Films d’Ici e il portare Oh! Uomo al Festival di Cannes nel 2004. Il Centro Pompidou ha messo in evidenza la pluralità del nostro lavoro, dal mondo del cinema al mondo dell’arte, e l’ampiezza e vastità della nostra incessante sperimentazione.
Negli scorsi anni erano già state organizzate alcune retrospettive, ma sono sempre risultate parziali, come quella alla Tate Modern (2011), dedicata a una parte del cinema; oppure quella al MoMA (2009), un percorso che si sviluppava a partire da Dal Polo all’Equatore.
E in Italia?
A. R. L.: L’unica istituzione, privata, che abbia ospitato un nostro omaggio – parziale anche in questo caso, dato che sono state esposte solo installazioni – è stato l’Hangar Bicocca.
Al Beaubourg invece hanno voluto mettere in mostra installazioni, acquerelli e persino la nostra scrittura. Il Centre Pompidou, infatti, ha voluto che lavorassimo a una pubblicazione che contiene anche nostri testi, dal titolo Notre caméra analytique. Inoltre abbiamo lavorato a un nuovo film e a un altro rouleau ispirato al nostro incontro con Kokoschka, alla storia della bambola e della guerra da lui vissuta.
Attraverso fotografie, fotogrammi, film, documentari, cortometraggi e acquarelli, quale definizione emerge del vostro ruolo di inarrestabili rivelatori? Non siete, forse, anche degli esploratori?
A. R. L.: Sì, certo, sono esatte entrambe le definizioni. Siamo stati pionieri nella creazione di immagini in movimento, grazie anche a una ricerca che non si è fermata nemmeno dopo esser stata così tanto osteggiata. Tuttora non ci rendiamo conto di quel che è successo in Francia: noi restiamo sempre artisti d’avanguardia, incarnando semplicemente il termine avant-garde, cioè quella “guardia che sta davanti”, che vede per gli altri.
Al Pompidou hanno curato così tanto i differenti aspetti che, quando ci hanno proposto di esporre tutto quanto il nostro lavoro, ci siamo spaventati a dover affrontare quarant’anni di ricerche e di vita, che per noi sono tutt’uno. È stato un grandissimo impegno, sia da parte nostra che da parte loro, sebbene si sia avuto poco tempo per organizzarlo: solo sei mesi. Al MoMA ci hanno avvisati con un anno di anticipo, mentre all’HangarBicocca addirittura due anni.
Come si intrecciano, in questa retrospettiva, tempo storico e tempo umano?
Yervant Gianikian: Abbiamo sempre lavorato sul passato, che per noi parla del presente, mentre il tempo storico riflette perfettamente questa umanità straziata dei nostri giorni. Il tempo storico e il tempo umano si sovrappongono nel dolore. Noi non facciamo altro che osservare e rievocare il continuo ripetersi della storia, che avviene attraverso la violenza.
Oggi siamo in uno stato di guerra permanente. Abbiamo cominciato a raccontare la guerra nel 1986 con Dal Polo all’Equatore e sono trent’anni circa che continuiamo a ripercorrere la Prima, la Seconda guerra mondiale, la questione armena e le emigrazioni. Il tempo è una continua replica, come sottolineava Gianbattista Vico: la storia si ripete.
Tra i cinquanta film che avete proiettato al Pompidou, a quale non si sarebbe mai potuto rinunciare e perché?
Y. G.: Un film per noi importante, forse irrinunciabile, è Dal Polo all’Equatore, che continua a girare il mondo. Negli Stati Uniti eravamo già conosciuti con i Scented Films – allora li promuovevamo attraverso lunghi tour americani, perché qui in Italia interessavano molto poco. Siamo tornati con questo film, distribuito da subito dal MoMA. Durante la realizzazione siamo rimasti chiusi nel nostro studio per quattro anni, abbiamo praticamente vissuto in una camera oscura e, quando ne siamo usciti, a Milano non riconoscevamo più la città. Eravamo calati in questo film la cui realizzazione ha richiesto l’opera di quasi 500mila fotogrammi singoli, 500mila fotografie.
La prima proiezione è stata a Los Angeles. Era stata organizzato un tour del film di tre mesi -maggio, giugno e luglio – e io avrei dovuto rimanere oltre sessanta giorni, ero senza Angela, ma a San Francisco mi sono fermato, per me era troppo. Così sono tornato indietro. Abbiamo ripreso il tour insieme quando è arrivato alle proiezioni di New York. Jim Hoberman, dalle pagine del Village Voice, ci ha definiti “explorers”.
Dalla retrospettiva, quale idea di civilizzazione emerge?
Y. G.: È preponderante la nostra denuncia visiva delle barbarie. Non vogliamo essere didattici. I film e le installazioni presentati al Pompidou raccontano la visione occidentale del colonialismo e noi la risignifichiamo, rovesciandone il senso. Non vediamo alcuna civilizzazione, piuttosto una serie di conquiste violente.
Con la ricerca sul dettaglio, nel fotogramma, attraverso la nostra “camera analitica”, registriamo ritratti di singoli in popolazioni inermi, nei Paesi “esotici” così com’erano nei primi anni del Novecento. Diamo una rappresentazione, un’identità precisa ai cosiddetti “civilizzati”, facendoli intravedere come mai prima. Africani, arabi, caucasici, indiani. Viaggiamo attraverso continenti.
Quale tipo di ricerca e di lavoro antropologico avete svolto con il cortometraggio commissionato dal Centre Pompidou, Où en êtes-vous?
Y. G.: Abbiamo sempre cercato di risalire il secolo, viaggiando attraverso l’origine delle immagini filmiche del mondo. Quest’ultimo lavoro racconta di altri “roghi” attuali: l’Iraq come era visto negli Anni Sessanta – l’Iraq è la Mesopotamia. La prima immagine: un muro dove è scritto Welcome to Baghdad. Appaiono intere e ancora intatte le costruzioni che sono state distrutte adesso; si vedono Mossul, Hatra, così come altre antiche città e monumenti oggi rasi al suolo. Mostriamo l’Afghanistan, appena prima della guerra del 1979. C’è la Grecia del 1941-42 occupata e vista dai nazisti. Sul Partenone sventola la croce uncinata. Dagli archivi emerge la sofferenza delle popolazioni sottomesse. Un aspetto importante della nostra ricerca è quello sulle popolazioni Rom, così perseguitate nei tempi attuali.
In questi anni abbiamo costruito il nostro “archivio degli archivi” e durante questa mostra al Pompidou ci è stato consegnato un premio internazionale importante dalla FIAF – Fédération Internationale des Archives du Film, un riconoscimento che è stato dato, fra gli altri, a Scorsese, de Oliveira, Varda e Bergman.
Quanto Tourisme vandale (1986) e Pays barbare (2014) rievocano due aspetti socio-culturali che stiamo vivendo?
Y. G.: Abbiamo iniziato a realizzare Pays barbare nel 2012, per una casa di produzione in Francia e per la prima volta abbiamo usato la nostra voce, mentre di solito i film che concepiamo sono silenziosi, oppure utilizzano sottili colonne sonore e didascalie in sovrimpressione. Questa volta abbiamo sentito l’urgenza di dire, di esser più chiari ed espliciti, raccontando il Mediterraneo, le sue civiltà, oggi “tomba profonda”.
Tempi più raccolti e compatti invece emergono in alcune installazioni, come in Imperium (2013). Mentre il film Pays barbare è incentrato sulla conquista armata, sulla guerra attraversata da un diario di un operaio-soldato italiano in Etiopia, l’installazione Imperium – su quattro schermi prodotto e presentato dalla Haus der Kulturen der Welt di Berlino – è invece focalizzato sulla conquista economica, sulla Banca d’Italia a Harar, ultima città di Arthur Rimbaud. Sono riprese le donne dei banchieri, le donne africane, le armi, la vita e le altre passioni dei soldati che sono il corpo femminile nero. Le immagini si collegano inevitabilmente al presente, costringono a pensare, a fare associazioni.
Dopo il Leone d’Oro al Padiglione armeno, quale nuovo senso o sentimento hanno acquisito Rouleau arménien e Retour à Khodorciur. Journal Armènien?
A. R. L.: L’Armenitudine, come noi la definiamo nel nostro lessico familiare, ci accompagna in parte del nostro lavoro. Per noi l’Armenia è Raphael, il padre di Yervant. In Retour à Khodorciur (1986), per la prima volta racconta la storia drammatica della sua sopravvivenza al genocidio. Del suo ritorno nel 1976, ormai anziano, al paese natio distrutto e abbandonato. Nel 1915 era un bambino e rimase solo perché vide scomparire uno a uno i componenti della sua famiglia e di tutto il villaggio. Il lungo esodo dal Caucaso alla Siria, dove gli armeni furono costretti ad arrivare per morirvi, si rinnova oggi: la tragica storia di altri profughi per noi è fonte di sofferenza.
Ora a San Lazzaro è come se fosse tornato a casa. All’isola è stato esposto un lungo rotolo di 17 metri per 75 cm, un Rotolo Armeno di acquerelli che narrano antiche fiabe armene medievali, terribili e dolcissime, di cui Raphael ci fece dono traducendole da lingue antiche armene, kurde, turche, persiane. Il rotolo è l’incrocio di due culture: Oriente e Occidente.
Potreste rivelare i vostri programmi futuri?
Y. G.: Siamo già in un nuovo lavoro, da cui siamo molto presi. Ci siamo dentro fino al collo!
Ginevra Bria
Parigi // fino al 15 novembre 2015
Yervant Gianikian & Angela Ricci Lucchi – L’archive comme oeuvre, l’oeuvre comme archive
CENTRE POMPIDOU
Place Georges-Pompidou
+33 (0)1 44781233
www.centrepompidou.fr
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