Mid-career alla riscossa. Kengiro Azuma
Ci sono artisti che, nonostante abbiano alle spalle almeno quarant’anni di ricerca rigorosa e un curriculum di ampio respiro, ormai storicizzato, oggi in Italia non trovano spazio, salvo rare eccezioni, nei contesti espositivi istituzionali e non. Nomi, quindi, trascurati dal sistema dell’arte, gallerie comprese, e spesso anche dal collezionismo. Nonostante ciò, continuano, in solitaria, la loro ricerca. Questa rubrica racconta le loro storie.
UN GIAPPONESE DEVOTO A MARINO MARINI
In un cortile appartato della vecchia Bicocca a Milano c’è lo studio di Kengiro Azuma (Yamagata, 1926). È qui da oltre mezzo secolo, l’artista giapponese che nel 1956 è approdato in città con un solo obiettivo: conoscere Marino Marini, per cui ancora oggi nutre un’ammirazione mista a devozione. E al maestro “etrusco” della scultura italiana, Azuma si è legato immediatamente, frequentando dapprima i corsi a Brera, per poi diventare suo assistente in studio.
Proprio in questi giorni al M.I.G. di Castronuovo di Sant’Andrea è in corso un omaggio alla produzione grafica dei due artisti, e a breve nel borgo lucano sarà installato un atelier Azuma, aperto a studenti e giovani artisti.
LA FEDE NELL’IMPERATORE E IL VUOTO
Ma facciamo un passo indietro. Prima dei suoi studi d’arte a Tokyo, Azuma era pilota militare, la sua fede incrollabile per l’imperatore lo spinse a impegnarsi nella Seconda guerra mondiale; il resto è storia: la bomba atomica a Hiroshima e la caduta del Giappone. “Capii che l’imperatore non era dio, fu drammatico, per oltre un anno non sono più uscito da casa”, racconta.
La sua cultura figurativa è legata alla tradizione francese, da Aristide Maillol in avanti, poi mediata dall’incontro con le forme arcaicizzanti di Marini, almeno fino al 1960. Ma il maestro gli consiglia di guardare alla sua cultura, alle radici filosofiche orientali: nasce così la lunga serie MU, ovvero Vuoto, in cui Azuma scava nella materia – gessi, bronzi, carta, terracotta e finanche il pane, dopo alcune recenti esperienze a Matera – per far emergere le sue potenzialità, rintracciando quell’esperienza zen che gli appartiene per formazione e attitudine.
UNO SCULTORE ZEN
“Con il maestro Marino il rapporto era anche umano, mi ha insegnato tanto, era convinto che l’uomo per vivere serenamente debba capire se stesso e distinguere il bene dal male”.
La fede – da non intendere in un senso propriamente religioso – è al centro di tutta la sua ricerca, che si manifesta attraverso una pratica quotidiana del disegno. Da decenni Azuma traccia segni di carboncino sulla carta, rivela simboli che si concatenano per poi intrecciarsi irrimediabilmente, rivelando vuoti irrimediabili e fecondi. “Ogni giorno faccio un
gesto spontaneo, non studiato, anche per allenare la mia mano; bisogna riempire lo spazio bianco per evidenziare il vuoto, l’invisibile. Essendo scultore, per esprimere il vuoto ho bisogno del pieno”. D’altronde, precisa, “Zen vuol dire essere vuoto, io sono come un bicchiere vuoto, sempre pronto a ricevere”.
Così dalle opere legate al tema della figura degli esordi, dal 1960 in poi il lavoro di Azuma si è mosso su un piano astratto-informale, che via via si è sempre più semplificato e alleggerito, fino ad arrivare a risultati sintetici e rigorosi, come la grande goccia in una piazza materana.
FUORI DAI MOVIMENTI E DALLE MODE
Non essendo mai entrato in nessun movimento, avendo sostanzialmente ignorato mode e tendenze – nessun afflato poverista, ad esempio –, Azuma è rimasto spesso fuori da mostre di ricognizione storica, anche in tempi recenti. Il carattere ha fatto il resto: “Mi sono tenuto sempre fuori dalla grande massa, questo mi ha consentito di osservare le cose con più equilibrio”, rivela. “Spesso ho anche subito la solitudine. Non ho mai cercato denaro, ma ho avuto anche problemi economici dovuti a questa condizione. Ma”, aggiunge, “ho sempre voluto guardare a me stesso con lucida coscienza. Sono molto paziente, vivo con la speranza che prima o poi arriverà un po’ di luce anche per me”.
Nel 1961 partecipa, con Arp, Giacometti, Moore, Picasso e altri nomi, a una mostra a L’Obelisco di Roma, introdotta da un testo di Giulio Carlo Argan, giusto per citarne una delle tante. Sul suo lavoro hanno scritto Franco Russoli, Carlo Ludovico Ragghianti, Gillo Dorfles, Mario De Micheli e Guido Ballo, e il percorso espositivo è decisamente intenso, tra personali e collettive accanto ai grandi maestri a lui contemporanei, sia in Italia che all’estero, fino all’antologica, curata da Giuseppe Appella, nelle chiese rupestri e al MUSMA di Matera, nel 2010 (catalogo Edizioni della Cometa, con apparati dettagliati sulla sua vicenda artistica e biografica), che ha fatto il punto anche sulla sua produzione disegnata e sui gioielli.
“Io sono sempre qui, ogni giorno, a tracciare un segno”: Azuma ci congeda così.
Lorenzo Madaro
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