Biennale di Architettura. Intervista con Alejandro Aravena
Abbiamo incontrato il cileno Alejandro Aravena a Venezia, dove si appresta a dirigere la 15. Biennale di Architettura, al via il 28 maggio 2016. Da Constitución, città di nuova fondazione che lo vedrà impegnato per il prossimo decennio, alla metodologia per ridefinire l'iter progettuale e il ruolo dei diversi soggetti coinvolti, fino all'idea di architettura come "sistema aperto", in questa intervista chiarisce anche orientamento e spirito della sua Biennale. A favore di una disciplina capace di interpretare la condizione umana, per aprirsi a nuove frontiere.
Elemental si occupa di architettura misurandosi con progetti molto diversi tra loro, dall’housing sociale ai clienti delle multinazionali. Alla luce dei grandi cambiamenti, sempre più veloci e repentini in campo politico, economico e sociale, quale ruolo assumono oggi l’architetto e la disciplina?
Nel cuore dell’architettura c’è la potenzialità di organizzare forze diverse, spesso anche opposte, in un’unica forma e soprattutto sintetizzare tutte le informazioni in una proposta. Dedicarsi a questioni complesse con l’intenzione di risolverne ogni aspetto conduce inevitabilmente alla paralisi.
Sintetizzare, tuttavia, non significa semplificare. Non si tratta, infatti, di ridurre la ricchezza iniziale delle questioni che si affrontano, ma di stabilire una gerarchia, focalizzandosi sull’aspetto più importante da cui partire, per saper rispondere bene anche alla domanda sbagliata. È da qui che deriva la qualità del progetto e la reale possibilità di portarlo avanti con successo.
In alcuni casi di social housing, hai affidato taluni aspetti del progetto architettonico alla valutazione dei futuri abitanti. È stata una scelta efficace?
Non si è trattato di una scelta, ma di una realtà. Oggi una famiglia di classe media abita ragionevolmente bene intorno agli 80 mq. Tuttavia, sappiamo che le politiche pubbliche dei Paesi in via di sviluppo permettono di costruire case di massimo 40 mq. Ogni famiglia, nel tempo, tenderà naturalmente a crescere, e quindi ad avere bisogno di spazi maggiori.
Partendo da questa valutazione, abbiamo cercato la forma più adatta per condurre e stimolare quella capacità individuale di adattamento e crescita. Tuttavia, se anche avessimo potuto usufruire di risorse economiche maggiori, avrei comunque preferito costruire la metà di una casa, perché il progettista, per quanto sia attento ai bisogni degli abitanti, non potrà mai capire fino in fondo le esigenze di una famiglia che non conosce. Per progetti di questo tipo è impossibile pianificare soluzioni personalizzate: bisogna creare sistemi aperti.
In questi casi, qual è stato il vostro punto di partenza?
Il primo aspetto su cui ci siamo concentrati è stato la localizzazione. Non avendo soldi per affrontare una realtà così complessa sotto ogni aspetto, quello che ci premeva era rispondere all’istanza più importante: il “dove” e non il “quanto”.
La città va considerata come luogo di concentrazione di possibilità e non semplice accumulazione di case: le persone vanno a vivere in centro invece che in periferia perché ci sono più opportunità che altrove. Delocalizzarle significava relegarle in un luogo difficile e inaccessibile. Pertanto, per soddisfare al meglio il problema della localizzazione, abbiamo scelto di costruire meno metri quadrati ma in centro. Questo può essere politicamente difficile da spiegare, ma ha un significato molto forte e sono state proprio le famiglie ad averlo compreso per prime.
Com’è stato affrontato il dialogo con le famiglie con cui avete collaborato?
Io credo che il “senso comune” sia la base essenziale per una comunicazione diretta ed efficace: quando si dicono cose ragionevoli – anche se non immediatamente evidenti – la possibilità di comprensione è garantita. Del nostro lavoro è stato detto: “Voi parlate con le persone orizzontalmente”. Abbiamo sempre cercato, infatti, di non presentare i problemi più complicati di quello che sono in realtà, ma neanche di semplificarli oltre misura solo perché si comunica con persone che non hanno le nostre conoscenze.
Questo “trattamento orizzontale” implica che l’architetto abbandoni il senso di colpa che deriva dal suo essere dotato di conoscenze che non tutti possiedono e che, nello stesso tempo, si allontani dal ruolo del “volontario” che spesso tende ad assumere quando ha a che fare con la comunità. Non tutto quello che la cittadinanza desidera o dice è da considerarsi sacro. Il progettista, infatti, forte delle conoscenze e delle esperienze che gli sono proprie, non deve trovarsi a negoziare su scelte professionalmente irresponsabili, anche se sostenute dall’intera collettività. Al contempo, deve tener presente tutti i fattori che gli sono sconosciuti e, sulla base di questi, deve valutare la possibilità di cambiare ciò che aveva pensato all’inizio.
C’è quindi un margine di confronto con gli abitanti delle vostre case, nel momento in cui dovete risolvere anche problematiche pratiche?
Sì, certamente. Loro sono portatori di una saggezza “pratica” a noi sconosciuta. L’architetto non può avere la presunzione di conoscere meglio dei futuri abitanti tutte le loro esigenze. Ovviamente, ci sono altre questioni su cui la nostra professione può certamente dare delle risposte corrette. Alcune nostre scelte che consideriamo fondanti, come la localizzazione, non sono negoziabili.
In questo periodo su cosa state lavorando?
Un terzo del nostro tempo è dedicato all’abitazione sociale, un terzo alla progettazione di edifici più convenzionali per clienti privati, mentre un altro terzo è concentrato su ciò che è emerso in Cile dopo lo tsunami del 2010, ovvero la necessità di ricostruire intere città, progettando infrastrutture, spazi pubblici, edifici con uno schema di partecipazione collettiva che superi la dimensione “di quartiere”.
Abbiamo da poco ricevuto l’incarico di ridisegnare un’intera città cilena: Constitución. Ci vorranno dieci anni per portare a termine il progetto ma, in cento giorni, abbiamo dovuto delineare praticamente tutto. Quando si parte da zero, come in questo caso, è necessario cooperare con la collettività anche su larga scala, esattamente come abbiamo fatto nei nostri progetti di social housing. Abbiamo sviluppato un modello di collaborazione basata sulla partecipazione comunitaria pubblica e privata, portando il sistema delle 3 P – Public, Private Partnership – a 4, con l’aggiunta della P di Popular. Un consorzio in cui Stato, soggetti privati e cittadini collaborano, impiegando insieme le proprie risorse.
È una novità per voi?
Abbiamo utilizzato lo stesso schema anche quando siamo stati incaricati dalla più importante compagnia di estrazione di rame del Cile di occuparci della situazione problematica delle città prossime al deserto nord del Paese. Si trattava di centri di 150mila persone in cui, pur concentrandosi un’ingente porzione della ricchezza dell’intera nazione, si viveva in uno stato di indigenza generale e di bassa qualità della vita.
Siamo intervenuti in questo che definirei uno “tsunami sociale”, con lo stesso modello appena descritto, che si è ampliato fino a divenire uno schema in cui la città diviene un veicolo verso l’uguaglianza. Un modus operandi che si basa su un “meccanismo di negoziazione” nella ripartizione equa dei benefici creati dalle industrie produttive.
Come sviluppate le pratiche di partecipazione?
Ci affidiamo ai nostri saperi e a quelli di coloro con cui lavoriamo. L’abitazione sociale, una volta, si faceva quasi “intuitivamente” ma, quando si tratta di lavorare su scale maggiori, come nella pianificazione di una città, c’è bisogno di un approccio professionale che richiede la presenza di collaborazioni strategiche di antropologi e sociologi. Serve una conoscenza tecnica molto concreta, sebbene l’intuizione e il buon senso rimangano alla base di tutto.
In che modo garantite alla popolazione di interagire alla pari con poteri di certo più forti, come quello politico-amministrativo ed economico?
Anche le classi più deboli hanno risorse importantissime! Questa democrazia intesa come azione radicale non è più una scelta: oggi se non ci si rivolge alle comunità per ottenerne consenso non si è in grado di costruire nulla. Quando iniziamo progetti di questo tipo, in collaborazione con Stato o imprese multinazionali, cerchiamo sempre di ottenere quello che definiamo “permesso sociale per operare”. Questa è la novità: l’autorizzazione legale non basta più.
Questo aspetto, se ben gestito, non rappresenta solo una difficoltà. Dato che si negozia in vista di benefici per tutti, l’energia della comunità può concentrarsi a favore del progetto. La logica del rapporto con la società ha cambiato in modo radicale l’approccio dell’architettura ai problemi che affronta: il capitale umano, finanziario e politico sono fondamentali, ma la vera chiave del business è il capitale sociale. In ogni caso, oggi è assolutamente necessario che tutte le forze in gioco siano concentrate nella stessa direzione.
Ora stai affrontando una nuova sfida, come direttore della Biennale di Architettura di Venezia. Puoi definire questa esperienza come un altro momento della tua ricerca?
La parola ricerca non fa parte del mio vocabolario. L’idea che un’operazione, una volta conclusa, debba essere considerata come conseguenza di una teoria è qualcosa che non mi appartiene.
Credo che il bello della Biennale sia che si possa operare attraverso altre voci, perché il curatore non espone il proprio lavoro ma quello di altri specialisti. Questa distanza permette di avere uno sguardo d’insieme più completo e lucido, e un minor coinvolgimento emozionale. Una distanza che nei confronti del proprio lavoro è quasi impossibile.
Di un progetto come quello della Biennale mi interessa l’aspetto collettivo, un’esperienza simile ti offre la possibilità di confrontarti con cento teste che ragionano su un problema solo. Questo potenziale professionale, intellettuale, emozionale, moltiplicato a livello globale, permette di trovare risposte che di certo saranno nuove, efficaci e concrete.
Come definiresti la Biennale: un’occasione di riflessione?
La Biennale è una grande occasione per fornire degli esempi. I presidenti dei grandi Stati del mondo firmano e suggellano accordi per costruire città a basso impatto ambientale, documenti che non incidono sul mio lavoro di progettista né mi aiutano a fare qualcosa di concreto. Se ogni presidente proponesse invece una città del proprio Paese come modello positivo sarebbe molto più utile. L’idea dell’esempio aiuta mille volte di più, mostra qualcosa di buono e spinge chi si trova in situazioni analoghe a seguire la stessa direzione. Ecco cosa voglio fare: mostrare esempi.
Hai quindi intenzione di confrontare esperienze di generazioni e realtà internazionali diverse?
Le uniche categorie di cui teniamo conto sono merito e qualità. I migliori progetti sono tali solo se l’atteggiamento, la domanda e le idee che ne stanno alla base sono buone. Sono la validità concreta e l’efficacia dell’esperienza che ci attraggono, non le diversità geografiche, razziali o anagrafiche dei progettisti. Non ci incuriosisce la diversità per la diversità. Ci interessa cercare di comprendere problemi importanti e le soluzioni che si propongono.
Il fronte come si declina?
Ci saranno moltissimi fronti: tanti ospiti e tanti Paesi. Ogni Paese sa qual è il suo problema più pregnante e quali sono le difficoltà e le sfide più grandi. L’invito è quello di condividere problemi che interessano tutti. Tuttavia, il solo sguardo diagnostico non è sufficiente. A me interessano le proposte, per condividere e confrontare esperienze utili per tutti i paesi.
Per questo daremo voce non solo agli architetti, ma anche a quelle comunità di cittadini che sono state capaci, in maniera indipendente, di costruirsi un luogo migliore in cui vivere. L’architettura ha il dovere di interpretare la condizione umana per aprirsi a nuove frontiere.
a cura di Simona Galateo ed Emilia Giorgi
www.labiennale.org/it/architettura/
http://alejandroaravena.com/
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati