Expo: cosa è stato e cosa resterà
L’idea è partita da Michele Dantini: Expo aveva inaugurato da poco, si aveva la necessità di discuterne. Gli interlocutori: Michele Dantini, Gianluigi Ricuperati, Cristiano Seganfreddo, Massimiliano Tonelli. Senza pretesa di esaustività, come un brainstorming a distanza e dai tempi dilatati. Ecco cosa ne è venuto fuori. In attesa di vedere quali saranno le cifre finali.
Gianluigi Ricuperati: Partiamo dal pezzo di Ollie Wainwright sul Guardian?
Michele Dantini: Ho letto con interesse il pezzo di Wainwright. Mi ha interessato in primo luogo per l’acutezza con cui coglie l’esperienza del visitatore. Perplesso, a tratti sconcertato o persino furioso, tuttavia coinvolto e talvolta conquistato dallo spettacolo circense (o operistico) dei Padiglioni in lizza l’uno contro l’altro. I contenuti dei Padiglioni sono molto diversi, come estremamente diversa è la cura scientifica o estetica dei “contenuti”, e credo gioverebbe descrivere questo o quel padiglione e accogliere ironicamente alla lettera il proposito dichiarato (perlomeno dei Paesi “maggiori’): presentare il proprio Padiglione come Gesamtkunstwerk. Kitsch identitario, certo; ma non sempre e non solo. Altro thread: la subalternità culturale del Padiglione Italia.
Massimiliano Tonelli: Dove sta la notizia rispetto al fatto che manifestazioni come Expo sono un grande spettacolo circense? Non è forse così da 150 anni? Ho l’impressione che il Guardian abbia sciupato 20mila battute per dire l’ovvio, quando avrebbe potuto invece rendere maggiori onori al bel padiglione UK… Riguardo al Padiglione Italia… che pena!
Michele Dantini: Io nel visitare Expo sono rimasto molto colpito dalla subalternità del Padiglione Italia, una subalternità che assume molte forme e tradisce purtroppo una grande distanza tra responsabili (“decisori”) e “classe creativa”; e la percezione a dir poco inadeguata o arcaica di cosa (si suppone) sia “industria creativa” oggi in Italia. A mio parere è un tema importante: questo della correlazione tra ignoranza ed esterofilia subita come karma. L’ho accennato in un mio diario di viaggio.
Gianluigi Ricuperati: Ho il pezzo di Michele e concordo su Vanessa Beecroft. Per il resto credo che la formula Expo sia ormai consunta, anche se ovviamente ci sono padiglioni di interessante qualità architettonica, e io amo molto l’architettura effimera (i miei preferiti sono quelli dell’area del Golfo: Bahrein, Kuwait…). Il punto è: questa Expo sta consegnando idee visionarie e pragmatiche per il XXI secolo sul cibo?
Massimiliano Tonelli: No. Non lo sta facendo. Ma non è che Expo ha il ruolo di esporre più che di proporre? Voglio dire: ci sovviene qualche idea visionaria dalla passata esposizione universale di Shanghai? Anzi: ci sovviene, così a caldo, il tema dell’esposizione di Shanghai? A me no. Non vorrei che ci si aspettassero da queste kermesse delle risposte che non sono titolati a fornire.
Gianluigi Ricuperati: Infatti pensavo oggi che in fondo si tratta di entertainment architettonico-turistico. Certo, quando uno vede l’orrore della mostra di Eataly…
Massimiliano Tonelli: Eh sì. È un palinsesto di entertainment. Con contenuti buoni e meno buoni. La mostra da Eataly e il Padiglione Italia sono intrattenimento un po’ scadente. Il Padiglione Britannico, per dire, è intrattenimento decisamente più alto.
Cristiano Seganfreddo: Concordiamo che è un grande parco giochi temporaneo, costruito come presunto magnete turistico-nazional-relazionale. C’è un piglio di intellettualismo sul tema guida, che è un tema molto “fashion” nel suo essere corretto. Nessuno scandalo, come dice Massimiliano, Milano fa semplicemente l’Expo e quello che da un’Expo ti aspetti, nella mancanza di un aspetto curatoriale d’insieme. Attrazioni più o meno buone, code, caldo, casino. La maggior parte delle attrazioni è slegata dal tema e senza qualità. Ma di fatto ci sta. Il problema continua ad essere il senso di investimenti di questa misura per costruire un grande parco giochi temporaneo.
Gianluigi Ricuperati: Bisognerebbe dire una volta per tutte che si può fare entertainment di altissimo livello pur rimanendo pop. Credo sarà il futuro della musica, dell’industria musicale. Gestire le future Expo. Pensate che roba se Expo 2015 l’avessero gestita i Daft Punk…
Massimiliano Tonelli: Proviamo a guardare qual è il bilancio. Ovvero entrambe le voci. Non solo le uscite, anche le entrate. Non mi scandalizzo se abbiamo speso 100 e “incassato” 90, o 100 o 110. Mi scandalizzo se abbiamo speso 100 e incassato 45. È difficilmente analizzabile, ma bisognerebbe capire tutto questo cosa genera, quanto a lungo, con quale aura. Banalmente: esco da una riunione in cui gente non sprovveduta di Roma, dopo due notti a Milano, magnifica la città… Questo ha un valore? Che valore? Quanto di questo valore si sprigiona grazie a Expo?
Cristiano Seganfreddo: Infatti dobbiamo smetterla di progettare cose fighe, o presunte tali, per pochi, e ridurre il pop alla tristezza numerica, stravolgendone il potenziale. Ha ragione Gianluigi. E aggiungo: quello è il futuro non solo per l’industria musicale, ma per la produzione tutta.
Marco Enrico Giacomelli: Siamo così sicuri che “la massa” sia ancora attratta non tanto dai grandi eventi, ma dalla logica che li sottende? Non è un atteggiamento paternalistico e/o di sottovalutazione del pubblico? Sarebbe interessante capire quanti under 25 vanno a Expo non imbrigliati da scuola e simili.
Cristiano Seganfreddo: La committenza è debole e incapace di leggere un sistema di produzione di valore e di contenuti completamente cambiato. Un disallineamento continuo, incapacità di produrre contenuti contemporanei alla propria epoca. Offriamo invece stereotipi sulla base di target che non esistono più. E tutto diventa subito folklore, ma non di quello interessante.
Gianluigi Ricuperati: Milano è diventata e diventerà ancora più bella. Ma il merito è interamente dei privati. Anche se devo dire che i padiglioni delle aziende sono una delle delusioni. Expo è una specie di Grande Occasione Metafisica del Capitalismo, ma se a dirigerla sono persone che non hanno quel karma, cioè burocrati o funzionari pubblici (magari anche bravi), le aziende non rispetteranno mai davvero Expo, e non faranno mai del loro meglio. Poi chiaramente era difficile mettere insieme un concetto profondo e di qualità (ma per niente “entertaining”) come quello di Boeri/Petrini e la vera corsa all’oro nell’alimentare, cioè gli Ogm. Si è cercato un compromesso, una concertazione (vero problema esecutivo italiano, che con la sua rozzezza ma efficacia Renzi sta scardinando, a costo ahimè di forzare la tenuta “democratica”), e non ha funzionato: le aziende non hanno portato grandi scoperte su Ogm e Slow Food non ha guidato in modo radicale la sua (apprezzabilissima) visione, purtroppo marchiata dal difetto straordinario di funzionare solo per Paesi democratici e “ben coltivati” (ehm) mentre due miliardi di creature vivono nel caos e sotto diversi gradi di non-democrazia, eppur si sfamano, e vanno sfamati. In altre parole, il cibo a Expo si presenta come l’ennesimo crono-sisma del mondo contemporaneo: diverse Storie, diverse cronologie, richiedono diverse modalità e moralità. E visto che ciò che connette questi tempi diversi è il flusso finanziario e commerciale, bisogna inventare soluzioni paradossali e non cose che ci facciano solo star bene. La Coca-Cola ha un bisogno disperato di gente come Petrini, anche perché la bevanda ha subito una flessione di vendite costante e non per nulla ha affidato suo ultimo exploit comunicativo a Mad Men, con la meravigliosa idea di far passare Don Draper come l’autore di “auguri coca cola / in magica armonia”. Ma ciò che è davvero inaccettabile – e Artribune potrebbe impegnarsi in questo senso – è che musei italiani importanti abbiano prestato a Vittorio Sgarbi quelle opere che lui ha brutalizzato con il suo spirito sfinito. Voi direte: anche questo è frutto del decisionismo renziano. Può darsi. Perciò ho parlato di rozzezza…
Michele Dantini: Accolgo adesso la sollecitazione di Gianluigi perché attendevo di vedere la mostra Il tesoro d’Italia e parlarne in modo adeguato. L’ho fatto proprio su Artribune e posso contribuire anche nella nostra conversazione. Che dire? La mostra è abbastanza casuale, con singoli pezzi mirabili e una selezione però troppo idiosincratica e dunque inattendibile. Va bene. Mi colpisce però il metatesto: nella sua pretenziosa sventatezza, Tesoro d’Italia riflette tratti antropologici di un determinato collezionismo italiano. Attorno ad essa aleggiano un pregiudizio e una sommarietà per così dire padronali. Cosa vuol dire “possedere” un’opera o essere mecenati? Questa è pur sempre una buona domanda da cui noi, con chiunque si proponga come curatore, possiamo iniziare. La risposta non è ovvia, come si può supporre, né ineluttabilmente connessa alla sola condizione dell’ampia ricchezza personale o familiare. Una collezione concepita come “tesoro”, dunque selettiva e per più versi emozionale, non rimanda a attitudini competitive. Collezionare non equivale (non dovrebbe equivalere) a sfoggiare. In definitiva: sul tappeto restano tutte le questioni connesse alla qualità. Per le circostanze date, il Tesoro d’Italia è una mostra semipubblica con un importante ruolo diplomatico. Come assolve a queste sue responsabilità? Non bene, direi. Non contribuisce a forgiare una storia dell’arte migliore né tantomeno ad accreditare nel mondo l’immagine di una penisola ingegnosa e versatile, abitata da studiosi seri e capaci. Peccato. Un “ambasciatore per le Belle arti” – tale Sgarbi nel contesto di Expo 2015 – dovrebbe tenere maggior fede all’ufficialità del proprio ruolo: non affidarsi al logoro canovaccio.
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati