Escougnou-Cetraro. Una galleria franco-italiana a Parigi
Un’italiana (Valeria Cetraro) e un francese (Edouard Escougnou), compagni nella vita e nel lavoro, da un anno e mezzo galleristi in una delle zone più established per l'arte contemporanea parigina. Li abbiamo incontrati in rue Saint-Claude, nel Marais, per farci raccontare la loro peculiare esperienza: all’insegna dell’ibridazione tra ruoli e discipline.
A settembre la Galerie See Studio è stata ribattezzata Galerie Escougnou-Cetraro, ufficializzando il vostro impegno in prima linea nell’arte contemporanea. Quali sono i principi che lo sostengono?
Dare i nostri nomi alla galleria è stata una scelta importante, all’insegna dell’impegno e della continuità. Fin dall’inizio la galleria è stata concepita come uno strumento per gli artisti e per tutti gli attori dell’arte contemporanea: un luogo dove generare delle domande. Il che significa pensare alla galleria come a una struttura più complessa: per dare visibilità non solo alle opere, ma anche all’attività degli artisti, dei critici e dei collezionisti.
Come si inserisce il vostro progetto nel sistema galleristico parigino? Quali elementi di novità o differenza intendete portare?
Il fatto di concepire la galleria come uno strumento di lavoro si traduce nell’organizzazione di una serie di attività che vanno al di là del momento espositivo, come conferenze, incontri e pubblicazioni. Questa volontà di pensare alla galleria come a un progetto è di certo una caratteristica comune delle più giovani gallerie. Ma qui nel Marais abbiamo maggiore visibilità: nell’ambito parigino, la rue Saint-Claude ha un peso storico non irrilevante!
Quali sono i vostri percorsi professionali e come siete arrivati a dirigere una galleria a Parigi?
Innanzitutto c’è una passione per l’arte che sta alla base di entrambi i percorsi. Un ingegnere e poi fotografo (Edouard) e un architetto con un interesse costante per l’arte contemporanea (Valeria). Sin da quando ci siamo conosciuti, abbiamo iniziato a pensare a progetti di mostra, creando l’associazione Deriva, lanciando appel à projet e cercando degli spazi provvisori.
Ma all’epoca eravamo ancora troppo presi dalle nostre attività professionali per poter concretizzare questi progetti. Quando con Deriva abbiamo occupato questo spazio per la prima volta, con la mostra The End, non pensavamo che sarebbe diventato la nostra galleria. Solo in seguito, in modo progressivo, la nostra voglia di sostenere gli artisti e la nostra passione per le pratiche curatoriali ci hanno guidato verso la creazione di una galleria.
Perché avete deciso di fondare una galleria e non piuttosto dedicarvi all’attività curatoriale?
Perché ci siamo resi conto dell’importanza di avere un luogo dove poter realizzare i nostri progetti! Prima ancora di Deriva e della galleria ci fu Tropico nero. A casa nostra c’è uno spazio interamente nero: pareti, soffitto e pavimento, che era diventato per un anno una specie di teatro in cui, ogni ultimo venerdì del mese, cinque artisti venivano a presentare una performance, una proiezione o altro. Questa voglia di avere un luogo che ci permettesse di riunire artisti e pubblico, quindi, era già viva al principio.
Inoltre la galleria rappresenta la possibilità di generare un riscontro economico concreto sia per gli artisti sia per noi: un’attività che permette alle opere di esistere anche a seguito del momento espositivo. Una struttura grazie alla quale è possibile sviluppare progetti a lungo termine, sostenendo gli artisti durante tutto il loro percorso.
Deriva esiste ancora?
Certo! Ed è anche un modo per mantenere una certa indipendenza rispetto a tutte le problematiche legate all’economia di una galleria: per poter agire in modo più libero e continuare a creare scambi, lavorando anche con artisti che non rappresentiamo.
Il vostro approccio sembra dunque realizzare un’ibridazione tra la prospettiva curatoriale e quella galleristica. Come lavorate in genere? Che tipo di programmazione proponete?
La programmazione cerca di alternare mostre collettive a personali. Entrambe, in fondo, hanno la caratteristica comune di essere pensate con largo anticipo, attraverso un dialogo e uno scambio duraturo. Tendiamo a considerarci come “colleghi di lavoro” per artisti e curatori, e facciamo riunioni regolari in presenza di tutti gli artisti della galleria ogni due-tre mesi.
Attualmente stiamo cercando di mettere a punto una programmazione che offra dei punti di riferimento stabili per il pubblico. A novembre abbiamo in genere una collettiva legata a un ciclo più esteso, poi cerchiamo di mantenere due o tre mostre collettive all’anno, su un totale di sette.
Cercate di dare anche una continuità concettuale alla programmazione?
Fin dall’inizio abbiamo cercato di fare in modo che le mostre seguissero un certo filo conduttore: anche nel modo di realizzare la curatela o di rapportare l’opera con lo spazio. Forse per via della nostra formazione (fotografica e architettonica), nelle mostre che facciamo emerge sempre un rapporto tra l’immagine, la scultura e lo spazio.
Come scegliete gli artisti rappresentati? C’è una linea dominante, tra la geografia e l’anagrafe, tra il teorico e l’estetico?
Fino a oggi ci siamo trovati a scegliere per lo più artisti francesi o residenti in Francia: questo perché era più semplice sviluppare progetti fondati sul dialogo e il confronto con chi già vive qui. Ma l’idea è di aprire all’estero al più presto. Abbiamo già iniziato a farlo con Deriva (che a inizio anno ha curato la mostra Distances con Matteo Innocenti, tra Prato e Parigi) e ora stiamo maturando dei rapporti oltreoceano, in Messico e negli Stati Uniti.
Per quanto riguarda l’anagrafe: le date di nascita si collocano tutte a cavallo tra gli Anni Settanta e Ottanta. Artisti “emergenti” ma con ricerche già ben definite. Dal punto di vista estetico, infine, amiamo lavorare con artisti che abbiano la tendenza a rimettere in discussione i codici legati a un medium, agendo nel confronto fra tecniche e discipline diverse. Artisti che sappiano rapportarsi all’opera in una prospettiva “progettuale”, che non si esaurisca nella produzione dell’oggetto d’arte.
Il 7 novembre avete inaugurato Au-delà de l’image, seconda tappa di un ciclo di collettive. Il progetto si concentra sul rapporto immagine/spazialità e dà vita a un complesso dialogo tra voi (nel doppio ruolo di curatori e galleristi) e un gruppo di giovani artisti. Cosa ci dobbiamo aspettare?
L’anno scorso Au-delà de l’image aveva riunito degli artisti che ancora non rappresentavamo e che oggi sono parte della galleria: la tematica era legata al rapporto tra fotografia, immagine e spazio. Quest’anno l’idea è di spostare il focus dall’immagine fissa a quella in movimento, ibridando non solo i medium, ma anche le discipline. Ci sono in tutto sei artisti (tra cui un duo). David de Tscharner presenta une serie di opere fondate sull’incrocio tra immagine, scultura e pittura. Il duo Pétrel I Roumagnac propone una pièce di teatro che è diventata oggetto, nel corso della mostra, di una serie di prise de vue. C’è poi una proiezione-installazione di Rebecca Digne, incentrata sul gesto del tracciare segni geometrici (o costellazioni…). L’opera di Emmanuel Le Cerf usa cellule fotovoltaiche per ri-registrare e ri-proiettare i segnali luminosi di un film originale. Laura Gozlan presenta una video-installazione ambientale immersiva, mettendo in evidenza il carattere liquido del medium filmico. Fra le proposte di Ludovic Sauvage, infine, un film costruito a partire delle immagini di una rivista dedicata ai paesaggi del sud-ovest americano, pubblicata tra gli Anni Settanta e Novanta.
Di recente avete anche fatto le vostre prime esperienze fieristiche, alla Docks Art Fair di Lione e alla YIA di Parigi. Come avete scelto queste fiere?
Abbiamo scelto Lione perché ha una dimensione più “umana” rispetto ad altre fiere. Una ventina di gallerie in tutto, per un evento ben organizzato, con un certo rigore nell’allestimento degli stand. Un ritmo calmo, che a noi piace perché permette di avviare un vero dialogo con i collezionisti.
La YIA è una fiera che seguiamo da molto, fin dalla prima edizione nel 2010, che aveva un’idea curatoriale meravigliosa: pensata come una mostra piuttosto che una fiera. Poi si è ingrandita nel Marais, ma resta sempre una fiera molto giovane e dinamica, che non si propone come una FIAC off, mantenendo una sua identità ben definita e indipendente.
Quali riscontri avete ottenuto?
I riscontri sono stati molto positivi.
Per concludere, qualche anticipazione sui prossimi progetti: tra mostre e collaborazioni, come si profila il futuro della Galerie Escougnou-Cetraro?
Dopo Au-delà de l’image ci saranno una serie di personali degli artisti della galleria: a febbraio Muriel Leray, tra marzo e aprile Pia Rondé & Fabien Saleil, a maggio un’altra collettiva e in estate una personale di Pétrel I Roumagnac. Nel frattempo, per due settimane a gennaio ospiteremo il collettivo Ikonotekst groupe, che esporrà una serie di disegni, ma darà anche vita a un ciclo di conferenze.
Infine, stiamo mettendo a punto una piattaforma digitale assieme a tutti gli artisti della galleria, in cui archiviare i documenti che elaboriamo assieme: per far sì che il programma di conferenze e incontri venga sviluppato attraverso un dialogo comune.
Simone Rebora
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