E peggio ancora: quelli che non hanno potere, ma fanno finta di averlo. I 40-50enni italiani, cresciuti evidentemente con il mito dello yuppismo nel corso di una post-adolescenza piuttosto prolungata, e che si affannano oggi a replicare imitare aggiornare quel modello. Sempre tirati, sempre ingiacchettati, sempre indaffarati, sempre connessi. (Infatti, questi qui non leggono più. La parola, in un contesto del genere e all’interno di questo codice comunicativo, recede: non ha più senso né funzione. Tutto è smart, tutto è live, tutto è concept, tutto è social: e si dimentica nel frattempo, abbastanza allegramente e drammaticamente, fino a che punto “social” abbia sostituito “sociale”, pur essendone l’opposto preciso: e anzi, proprio per questo motivo.)
Emergono i caratteri di un’insanabile contraddizione. La distopia è ovunque: nella famiglia, sul lavoro, nelle stazioni, nella scuola, nella politica. Distopia da una parte come cancellazione dell’intelligenza, animata da odio feroce contro di essa (che porta a una tremenda e forse irreversibile semplificazione); dall’altra come spinta irresistibile al conformismo. Adeguarsi: conformarsi a un “sistema di valori” che investe ogni scelta, ogni comportamento e ogni aspetto della vita quotidiana, individuale e collettiva.
È questa l’origine della protesta e della resistenza – anche queste quotidiane.
Non puoi scindere un aspetto dall’altro. Ogni passo che muovi, ogni minuto che vivi richiede un rifiuto, una microribellione, una secessione dell’animo. Non puoi vivere serenamente in questa finzione di società, in questo equilibrio farlocco e minaccioso.
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Estate 1994. Dave Grohl è in giro in Irlanda, senza una meta precisa: sono passati pochi mesi dal suicidio di Kurt Cobain. È sperduto nella desolazione pacifica di una strada di campagna. La musica gli fa paura; ha deciso che ne deve stare lontano, per un tempo indefinito. È troppo carica di brutti ricordi, di sensazioni negative. Poi, in quel nulla, in quella solitudine verde, compare un ragazzino con indosso la maglietta dei Nirvana (il quale, ovviamente, non riconosce il batterista)…
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Il flusso: la ricostruzione di un immaginario potente e resistente. Biologico, organico, concreto. Che cresce continuamente, costantemente. Dislocato in più zone spazio-temporali. L’immaginario vive solo se è collegato direttamente agli aspetti dell’esistenza (le esigenze; la tradizione, non penetrata archeologicamente ma esperita direttamente; la storia culturale come parte di un tessuto contemporaneo; la realtà produttiva del territorio e del contesto di riferimento; il rapporto non retorico né didascalico che la comunità nazionale intrattiene con il proprio presente): “La nostra cultura moderna […] non è affatto una vera cultura, ma solo una specie di sapere intorno alla cultura; essa si ferma al pensiero della cultura, al sentimento della cultura, non ne viene fuori una risoluzione di cultura. Ciò che invece è realmente motivo e che diventa visibile […] Noi moderni infatti non caviamo niente da noi stessi; solo riempiendoci e stipandoci di epoche, costumi, arti, filosofie, religioni e conoscenze estranee, diventiamo qualcosa di degno di considerazione, ossia enciclopedie ambulanti” (Friedrich Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita [1874], Adelphi 2014, pp. 32-33).
Se persiste il rifiuto del tempo presente con le sue caratteristiche e con i suoi riflessi (anche e soprattutto disturbanti, sfocati, irriconoscibili…), se permane la nostalgia, allora nessun immaginario può radicarsi e svilupparsi; ma solo frantumarsi e decomporsi: “Il popolo a cui si attribuisce una cultura deve soltanto essere in ogni aspetto reale qualcosa di vivamente unico e non dividersi così miseramente in interno ed esterno, in contenuto e forma. Chi vuol fondare e promuovere la cultura di un popolo, fondi e promuova questa superiore unità e collabori alla distruzione della ‘culturalità’ moderna a favore di una vera cultura, osi riflettere su come la salute di un popolo, turbata dalla storia, possa essere ristabilita, su come esso possa ritrovare i suoi istinti, e con essi la sua onestà” (ivi, p. 34).
Christian Caliandro
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