Inpratica. Nuove noterelle sull’Italia (IV)
È ancora valido il discorso che faceva Pier Paolo Pasolini a proposito delle “due Italie”, dei “due Stati incastrati uno nell’altro”? Sì, è validissimo. A patto però di stressare lo schema e portarlo alle sue estreme conseguenze. Allora ecco cosa succederebbe…
Continuiamo a esaminare il modello interpretativo della famosa divisione tra le “due Italie” introdotto da Pasolini nello stracitato e incompreso articolo Il romanzo delle stragi: “Il Partito comunista italiano è un paese pulito in un paese sporco, un paese onesto in un paese disonesto, un paese intelligente in un paese idiota, un paese colto in un paese ignorante, un paese umanistico in un paese consumistico. In questi ultimi anni tra il Partito comunista italiano, inteso in senso autenticamente unitario – in un compatto “insieme” di dirigenti, base e votanti – e il resto dell’Italia, si è aperto un baratro: per cui il Partito comunista italiano è divenuto appunto un ‘paese separato’, un’isola. Ed è proprio per questo che esso può oggi avere rapporti stretti come non mai, col potere effettivo, corrotto, inetto, degradato: ma si tratta di rapporti diplomatici, quasi da nazione a nazione. In realtà le due morali sono incommensurabili, intese nella loro concretezza, nella loro totalità. È possibile, proprio su queste basi, prospettare quel “compromesso”, realistico, che forse salverebbe l’Italia dal completo sfacelo: “compromesso” che sarebbe però in realtà una “alleanza” tra due Stati confinanti, o tra due Stati incastrati uno nell’altro. Ma proprio tutto ciò che di positivo ho detto sul Partito comunista italiano, ne costituisce anche il momento relativamente negativo. La divisione del paese in due paesi, uno affondato fino al collo nella degradazione e nella degenerazione, l’altro intatto e non compromesso, non può essere una ragione di pace e di costruttività. Inoltre, concepita, così come io l’ho qui delineata, credo oggettivamente, cioè come un paese nel paese, l’opposizione si identifica con un altro potere: che tuttavia è sempre potere” (Il romanzo delle stragi, “Corriere della Sera”, 14 novembre 1974, con il titolo Che cos’è questo golpe?, poi in Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori 2001, pp. 365-366).
È, questo delle due Italie (i “due Stati incastrati uno nell’altro”, “un paese nel paese”), uno schema che va estremizzato e stressato: questo doppio binario oggi esiste infatti nelle rappresentazioni, nell’interpretazione e nella comunicazione. Il discorso pubblico e i discorsi specifici sull’Italia: ogni soluzione si inserisce quasi sempre nel framework comune, accettato.
Se ti inserisci dunque – come scrittore, come artista, come regista, come innovatore sociale, come politico – pienamente nella retorica condivisa, è tecnicamente impossibile per te produrre e introdurre nel tuo contesto una reale innovazione (intesa come trasformazione). Eppure, se il tuo pensiero, il tuo discorso e la tua azione seguono una via più ‘corretta’ (ereticamente corretta) e procedono del tutto coerentemente su questa strada, allora ti poni automaticamente fuori dal framework e dalla retorica comuni, e ti esponi al rischio di risultare letteralmente incomprensibile: “La morte non è nel non poter comunicare, ma nel non poter più essere compresi”.
Come si esce da questa impasse? Come si risolve questa contraddizione tra due sistemi di valore incommensurabili? In modo al tempo stesso molto semplice e molto complesso, costruendo con pazienza tenacia e abilità un intero nuovo immaginario in cui far planare, atterrare la psiche collettiva della nazione.
L’immaginario è il telaio, la struttura fondamentale in grado di sorreggere un sistema di valori alternativo; di costruire i presupposti e le precondizioni per la transizione; di elaborare finalmente la progettazione del futuro non più come grigia procedura – mera amministrazione del presente ed estensione di questa amministrazione a un tempo che semplicemente (spazialmente?) si situa dopo, ‘che-sta-dopo’, ma come utopismo e come realismo insieme: “Utopismo realistico e realismo utopico” (Manfredo Tafuri, Progetto e utopia, Laterza 1973).
È chiaro quanto e come, per un’operazione collettiva di questo tipo (che richiede certamente tempi lunghi: una ventina o una trentina di anni almeno), sia cruciale riaffermare il potenziale trasformativo dell’oggetto e della critica culturale. La loro capacità latente, oscura, allucinata di intervenire nel tessuto della realtà e delle relazioni umane, per illuminarli e mutarli dall’interno: “L’opera d’arte è una liberazione, ma perché è una lacerazione di tessuti propri ed alieni. Strappandosi, non sale in cielo, resta nel mondo. Tutto perciò si può cercare in essa, purché sia l’opera ad avvertirci che bisogna ancora trovarlo, perché ancora qualcosa manca al suo pieno intendimento” (Roberto Longhi, Proposte per una critica d’arte, 1950).
Christian Caliandro
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati