Inpratica. Nuove noterelle sull’Italia (III)

Nell’Italia degli ultimi dieci anni sono stati pubblicati alcuni dei romanzi più importanti dell’Occidente, ma in pochi se ne sono accorti. Anche l’arte visiva sta esprimendo con fatica risultati notevoli. Sta producendo, cioè, senso.

… un desiderio di normalità; una volontà di adeguazione
ad una regola riconosciuta e generale; una voglia di essere
simile a tutti gli altri dal momento che essere diverso
voleva dire essere colpevole.
Alberto Moravia, Il conformista (1951)

C’è sempre uno schermo, in Italia: uno schermo che impedisce di vedere, e di sentire, la vita segreta intima profonda. E non quella continuamente raccontata e dispiegata a livello pubblico, ufficiale, istituzionale.
Una vita che si rivela – in modo del tutto insperato, eppure così naturale, spontaneo – nelle opere, per esempio: perché sotterraneamente accade, infatti, che nell’Italia degli ultimi dieci anni siano stati pubblicati alcuni dei romanzi più importanti dell’Occidente, e in pochi se ne siano anche solo accorti? Anche l’arte visiva, ovviamente, sta esprimendo con fatica risultati notevoli: quantomeno, presagi e annunci significativi di ciò che verrà. Sta producendo cioè senso, che stenta però a essere impiegato in modo fecondo e fertile nel processo di ricostruzione dell’identità collettiva. O anche solo – se è per questo – a essere riconosciuto.
Non viene impiegato, dunque, perché non viene riconosciuto.
Alcuni tra gli oggetti culturali più significativi non si sedimentano; non ne hanno il tempo. Invece scivolano via dalla percezione comune, si dissolvono (almeno momentaneamente). Ciò che emerge al loro posto è quasi solo uno scenario desolato e desolante: un’arte totalmente decorativa, infantile, immatura, passivamente appiattita su istanze che appartengono ad altre generazioni. E, forse, ad altre forze – che non sono quelle creative.

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Giorgio de Chirico, Autoritratto, 1924-25

Giorgio de Chirico, Autoritratto, 1924-25

Il paradigma di riferimento italiano – quello da cui, nonostante tutti gli sforzi e la fatica, non riusciamo ancora a sganciarci – continua a essere il disastro di Caporetto (24-28 ottobre 1917). Rotta rovinosa in cui tutto il fronte italiano crolla sotto la spinta degli austriaci, che dà corpo ai peggiori incubi del Paese, evocando gli spettri dell’inadeguatezza e dell’inefficienza: “La disfatta assumeva le proporzioni della catastrofe. Questa sembrava ormai irrimediabile. Udine era caduta, Venezia quasi a portata delle artiglierie nemiche, trecentomila uomini erano rimasti chiusi nella morsa e si avviavano verso i campi di concentramento, tremila cannoni, depositi, magazzini erano stati abbandonati e, frammischiati a un milione di soldati sbandati che cercavano scampo senza saper dove, brancolavano cinquecentomila civili che fuggivano l’invasione con carri e masserizie” (Indro Montanelli).
Se i vertici militari attribuiscono la colpa della disfatta alla “vigliaccheria” dei reparti, le cause vanno ricercate nella disorganizzazione e nella carenza strategica: la sconfitta è un’occasione formidabile di autoanalisi e di introspezione collettiva, e rappresenta un fantasma storico con cui il Paese continuerà a confrontarsi nei decenni a venire. Allo stesso modo, la vittoria dell’anno successivo a Vittorio Veneto (23 ottobre-3 novembre), esagerata dalla propaganda, non costerà molto. Giuseppe Prezzolini scrive che, senza la resistenza dei soldati (i “fessi”) sul Piave e sul Monte Grappa, la vittoria dei ‘furbi’ non sarebbe stata possibile: “Vittorio Veneto è una ritirata che abbiamo disordinato e confuso, non una battaglia che abbiamo vinto”.

Nello stesso pamphlet, lo scrittore propone un’originale lettura del sentimento nazionale post-bellico, ovviamente in seguito travisata e fraintesa, ma che – persino oggi, soprattutto forse oggi, dopo un secolo – potrebbe rivelarsi di grande utilità, se solo volessimo accogliere i suggerimenti impliciti ed espliciti contenuti in un’idea del genere: “Vorrà il nostro paese approfittare della lezione? Se noi usciremo dalla guerra con i nostri confini naturali e finalmente consci della nostra realtà di popolo che ancora è da fare, di nazione inferiore alle grandi che si contendono la direzione del mondo; se saremo capaci del modesto e serio programma di prendere questa ‘piccola Italia’ e cominciarne l’educazione e il dirozzamento, se potremo cacciare dal governo gli elementi malsani e incoscienti, iniziando da l’alto un regime di giustizia e di severità generale; se l’abisso fra chi comanda e il popolo sarà colmato e correrà dall’uno all’altro un ricambio di energie e di fiducia; allora questa catastrofe non sarà stata invano e fra venti anni gli stranieri dovranno rispettarci assai più di quello che farebbero se avessimo carpito, con immeritata fortuna, il posto che nel mondo non ci spettava né per forza né per maturità di animo” (Giuseppe Prezzolini, Dopo Caporetto, “La Voce” Società Anonima Editrice 1919).

Christian Caliandro

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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