A tu per tu con Giosetta Fioroni
Incontro con la grande artista romana in occasione della mostra a Milano, che propone sue opere storiche e un sorprendente ritratto di Marilyn Manson del 2009. Tra ricordi del passato e motivazioni dell'opera odierna, sempre forti e anticonvenzionali.
La mostra di Giosetta Fioroni (Roma, 1932) alla Galleria Marcorossi propone opere di grande pregio: carte d’epoca caratterizzate dall’uso dell’argento, tra cui alcune rarità e ritrovamenti. A questi lavori viene accostata una felicemente incongrua opera recente – un coloratissimo ritratto di Marilyn Manson – e una selezione di film d’artista. Abbiamo incontrato la grande artista romana in occasione di questa esposizione: una conversazione tra ricordi del passato e motivazioni, sempre forti e anticonvenzionali, dell’opera odierna.
Partiamo dalla mostra. Tra le opere d’epoca esposte, alcune hanno una storia particolare…
È una mostra con opere su carta storiche e un quadro realizzato nel 2009. Tra i lavori storici ci sono alcune rarità. Prima di tutto le quattro carte del 1964, che sono il bozzetto delle tele che furono esposte alla Biennale del 1964. Quelle tele non esistono più: erano in un piccolo studio a Roma, in un soppalco che si è sfondato. Sopra le tele sono precipitate delle scansie che le hanno distrutte. Tutto quello che rimane sono questi bozzetti.
La piccola carta intitolata Rosaspina, poi, è il primo approccio, il primo “appunto” della serie dedicata alle fiabe, da cui poi nacquero le tele. Altre due carte sono invece i primi passaggi verso l’argento. Le immagini non sono ancora proiettate, come facevo in seguito, ma realizzate a mano. Sono immagini molto semplici, il cuore, la lampadina. In seguito passai a proiettare immagini quasi sempre tratte da ritagli di giornali: volti, atteggiamenti…
Da elementi come questo viene l’accostamento con la Pop Art, tuttora controverso. Lei come si pone?
Sono passati molti anni… La Pop Art ha di certo influenzato molti di noi: oltre a me, Angeli, Festa, Schifano, Tacchi, Mambor… È stata un elemento dirompente. La Biennale del 1964 propose sia la Pop americana, così vistosamente legata a oggetti ingigantiti o deformati come quella di Jim Dine, sia l’arte di Rauschenberg e del Nouveau Réalisme, che non era propriamente Pop.
Io lavoravo quasi solo con l’argento e fui accostata a Warhol. Ora, a distanza di anni si vede che con lui non avevo molto a che fare. Le sue immagini erano sempre stemmi, immagini totalitarie, descrivevano un simbolo. Le mie erano immagini legate a un sentimento narrativo. Ho lavorato molto non sul femminismo ma sulla femminilità – ci terrei a distinguere. In un periodo di vivo femminismo, ero interessata agli sguardi, alle atmosfere legate alla femminilità.
Da dove proviene l’utilizzo dell’argento?
Il mio argento viene dal cinema, dai film in bianco e nero, dal mondo della fotografia e dal cinema. Ho vissuto a Parigi a fine Anni Cinquanta-inizio Sessanta e ho passato molto tempo alla Cinémathèque: entravo presto la mattina e uscivo la sera, per cui vidi il cinema di Stroheim, di Jean Vigo… tutta l’avanguardia francese, il cinema americano… film in bianco e nero. Più che dalla Pop Art, il mio argento viene da lì.
Guardando alla sua opera nel complesso: lei vede una continuità tra il primo periodo e quelli successivi, caratterizzati tra l’altro dalle ceramiche?
Diciamo che ho attraversato molti cambiamenti. Già quand’ero in Francia ho lavorato con molti colori, utilizzando scritte colorate (a volte c’era già anche l’argento). Poi la tavolozza è andata pian piano vuotandosi e ho utilizzato l’argento da solo, per poi passare a immagini più complesse, all’uso della proiezione e infine tornare all’argento steso a mano, tendendo a una forma di astrazione.
Successivamente sono andata a vivere in campagna, in Veneto, e ho fatto una serie di piccole teche dove raccoglievo relitti arborei, nidi, piume, fiori secchi, legni… Poi il ritorno alla tela e poi ancora i teatrini, che avevo coltivato fin dall’inizio. Molte mie opere si ispirano a testi letterari: Zanzotto, Bataille… La mia generazione era una generazione di lettori, ho conosciuto molti di questi autori.
Un ricordo di Bataille?
Pochi mesi fa ho fatto una mostra dedicata a lui. Lo incontrai perché era amico di un mio amico letterato. Era seduto nella terrazza del Café de Flore, un signore molto pallido, con occhiaie lilla, una persona abbastanza malata ma con una figura molto prestigiosa, con la malinconia descritta sul volto. Parlammo per un po’, era gentilissimo e molto triste. Morì un anno dopo.
Al di là della continuità, nella sua opera sembrano coesistere due dimensioni: una più intima e poetica e una che privilegia il commento sul mondo e sulla società. Convivono o sono in contrasto?
Difficile dare una risposta. Sì, certamente, il secondo tipo di approccio c’è stato, è indiscutibile. Mi sono guardata attorno attentamente, non c’è dubbio. Ma c’è anche una parte più “introversa”, legata molto alla lettura… Cechov, Zanzotto, Frazer (un antropologo molto letto negli Anni Cinquanta)…
È stato difficile essere un’artista donna, anche se si muoveva in un ambiente progressista?
Devo dire di no. Ho vissuto una sola esperienza negativa. A Cardazzo erano piaciute alcune mie opere di piccolo formato e le espose nella sua galleria milanese [la Galleria del Naviglio, N.d.R.] ancora prima di fare una mostra. Io ero nel soppalco e lui le mostrava a un collezionista di piccoli formati. Stava già scegliendo quali acquistare quando chiese: “Vediamo un po’ chi sono questi giovanotti che lei caldeggia, come si chiamano… ma qui c’è una A, Giosetta… Ah no, le donne no, perché si sposano, fanno dei figli e non combinano niente”. Cardazzo disse: “Questa non credo, ha l’aria molto decisa”, ma il collezionista rimase fermo, ribandendo “Le donne no, per carità”.
Io stavo per scendere e dargli un cazzotto, invece rimasi dov’ero e non dissi niente. Ma questa è l’unica esperienza negativa dovuta al fatto di essere un’artista donna. Sinceramente ho sempre avuto attenzione, non ho mai subito ostruzionismo.
Veniamo al quadro recente in mostra, che ritrae Marilyn Manson ed è dipinto con uno stile molto diverso dal suo solito.
Ho fatto una lunga ricerca su Marilyn Manson, ho riunito molte sue immagini prima di realizzare il quadro. Nella foto a cui mi sono maggiormente ispirata, aveva delle protesi negli occhi, che così erano uno diverso dall’altro. Ho studiato molto le sue deformazioni, soprattutto per quanto riguarda gli occhi e la bocca. È un personaggio che mi affascina e mi interessa molto per la sua esplorazione delle possibilità del trasformismo.
Lei ha dichiarato recentemente che le interessa “raccontare ed esaltare il brillante degrado formale dell’arte oggi, che però, nella sua grande confusione, si apre a ventaglio per legittimare nuove visioni”.
L’arte oggi è una scelta di confusione. C’è di tutto, gli animali in formalina, il quadro, il cartone, la Street Art…
Molti dicono che si tratta solo di spettacolo, di volontà di stupire.
No, è tutto lecito. Il quadro su Marilyn Manson, con una pittura così clamorosamente cartellonistica, così decorativo, nasce anche dall’idea che da un lato esiste un’“inflazione” formale, ma che tale inflazione apre possibilità di cui usufruire.
Stefano Castelli
Milano // fino al 25 novembre 2015
Giosetta Fioroni – Frammenti d’argento (con apparizione)
MARCOROSSI
Corso Venezia 29
02 795483
[email protected]
www.marcorossiartecontemporanea.com
MORE INFO:
http://www.artribune.com/dettaglio/evento/48674/giosetta-fioroni-frammenti-dargento-con-apparizione/
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