Qual è il tuo rapporto con critica e giornalismo?
Credo molto nel giornalismo, lo considero quasi sacro. Sfortunatamente il vero giornalismo è qualcosa che al momento sembra essere in pericolo di estinzione, almeno in America. Non sono sicuro della situazione in Italia, ma sospetto sia la stessa.
Mi piace farmi intervistare, ma potrebbe andarmi male nel caso in cui il giornalista fosse una mucca. Allora tutte le risposte sarebbero tradotte con un “muuuuu”. Riguardo alla critica invece credo sia piuttosto difficile scrivere di musica o di arte. Le persone che davvero sono capaci di farlo in modo adeguato sono meravigliose per me, e hanno tutto il mio rispetto.
Hai uno studio dove dipingi?
Ovunque io sia, quello è il mio studio. Ovunque mi trovi, lo spazio finisce col diventare luogo di lavoro, come se il lavoro si impossessasse del luogo. Ho avuto diversi studi quando lavoravo prevalentemente a olio, ma al momento purtroppo non ne ho uno fisso.
Da quando lavoro con gli acquerelli, invece, ogni superficie del posto in cui vivo finisce con l’essere invasa da tele e carte. C’è una forte relazione tra il luogo dove vivo e la mia attività.
Come organizzi il tuo spazio? Sei una persona ordinata?
Non sono una persona molto ordinata, ma neanche troppo incasinata come si potrebbe immaginare. Nesrin, la mia assistente, fa un lavoro magnifico nell’organizzare lo spazio in cui dipingo.
Come vivi la tua routine da pittore? Quante ore al giorno lavori?
Ogni giorno, quando mi sveglio, guardo i lavori fatti la notte precedente. Durante una sessione di lavoro è difficile avere una visione lucida e oggettiva di ciò che si sta facendo. Al mattino invece tutto sembra più chiaro e concreto. Per questo appena sveglio dedico un po’ di tempo a capire dove mi trovo con i dipinti in corso, cosa c’è di buono o cosa devo rivedere. Appena mi è chiaro come approcciarmi alle singole opere, inizio a lavorarci immediatamente, ma solo per una ventina di minuti. Dopo controllo il computer e vedo gli impegni della giornata. Mangio e ricomincio a lavorare. Il resto delle ore lo passo a lavorare a intervalli, fermandomi e ricominciando. In tutto posso lavorare cinque ore o quindici minuti o otto secondi.
Sei un personaggio enigmatico. Le tue interviste sono sempre schiette, poche parole e mai troppo entusiasmo. Ti interessa l’idea che qualcuno sia incuriosito da te?
Non sono enigmatico intenzionalmente. Ho avuto brutte esperienze con giornalisti che hanno male interpretato ciò che dicevo. Per questo penso sia più sicuro rispondere alle interviste in modo il più possibile conciso. Ero solito mettere un sacco di impegno nelle interviste, rispondendo in modo sempre esaustivo, ma molti giornalisti raramente riportavano quello che effettivamente avevo detto, preferendo distorcere le mie parole per far sembrare l’articolo più accattivante, o comunque più soddisfacente per loro.
Ma ti assicuro che se scopro di avere davanti a me un giornalista che è davvero tale, e di cui mi posso fidare, mi apro volentieri. Ed è qualcosa che faccio anche con molto piacere.
Sei attore, pittore, regista e musicista. In quale di queste categorie ti senti più a tuo agio?
Non mi sono mai sentito troppo a mio agio con la recitazione. Stefania Sandrelli una volta mi disse che era bello guardarmi allo schermo perché sembrava che non volessi essere lì, quando invece la maggior parte degli attori normalmente davanti a una camera sembra gridare: “Guarda me! Guarda me!”.
Musica e pittura, invece, sono venute fuori dalla parte più profonda di me; o forse sarebbe meglio dire che le cose migliori che faccio provengono da luoghi che non hanno niente a che fare con la mia persona, ma semplicemente galleggiano nell’aria e io non devo far altro che afferrarle.
In molte interviste si parla del tuo stato di salute, e di come questo abbia condizionato la tua attività di musicista e attore in questi anni. La pittura è stata davvero una conseguenza della tua malattia?
In parte sì, perché la malattia è stata la ragione per la quale ho cominciato a dipingere a tempo pieno. Tuttavia adesso è qualcosa di così forte e necessario che non posso immaginarmi a fare qualcos’altro. Senza la pittura non saprei come passare le mie giornate.
Sei emerso nella scena artistica nel 2004, dopo la tua prima mostra alla Anton Kern Gallery di New York. A distanza di oltre dieci anni, saresti capace di definire la tua carriera artistica?
No.
Ha qualche significato per te aver raggiunto lo status di artista?
No, decisamente no.
Tra pochi giorni aprirà la tua mostra presso la Galleria M77 di Milano. Come vivi, in generale, il momento espositivo?
Molto spesso è un momento perfetto: se l’allestimento è soddisfacente, con le cornici giuste e con la giusta disposizione dei lavori, non ho bisogno di altro. La mostra è lì, i tuoi lavori appesi, ed è qualcosa che non puoi negare… un po’ come il cambiamento climatico, capisci? È un dato di fatto. E tu ci sei in mezzo.
Com’è il tuo rapporto con il sistema dell’arte?
Quando tu dici “sistema dell’arte” io penso immediatamente a una stanza piena di disperati, gente inquietante che, permettendosi di essere snob con il prossimo, può vendere un ridicolo pezzo di plastica per tre milioni di dollari in più rispetto a un altro altrettanto orribile e ridicolo pezzo di plastica venduto da qualcun altro.
Se penso invece alla mia esperienza personale, so che ho avuto a che fare con molte persone a cui sono affezionato e che rispetto, perché sono lì a fare quel lavoro per amore e perché davvero ci credono. Loro sono mossi da un’esigenza pura, e rendono il sistema dell’arte migliore. In questi anni ho provato a tenermi il più lontano possibile dal mondo dell’arte, non mi interessa sapere quanto queste persone possano aiutare la mia carriera. Io non dipingo per loro.
Quanta casualità e quanta intenzionalità c’è dietro la creazione di un tuo dipinto?
Direi che se la giocano al cinquanta e cinquanta. Soprattutto quando si lavora con gli acquerelli, è importante relazionarsi al medium con consapevolezza, ma neanche influenzare troppo il risultato, perché il modo in cui l’acqua si muove sulla carta è sempre più bello e inaspettato di quanto la mente possa prevedere.
Quindi, quando inizio un dipinto, parto sì con un’intenzione precisa, ma non spingo mai troppo la mia idea. Dal momento in cui il colore tocca la carta, lascio molto spazio alla casualità, e lascio che tutto arrivi da me in modo naturale.
…come nella musica jazz?
In un certo senso sì, come quando Charlie Parker parla di “abbandono controllato”.
Ascolti musica mentre dipingi?
Raramente. Una delle conseguenze della malattia di Lyme è una ipersensibilità ai suoni, che rende difficile poter ascoltare musica. La perdita di questo privilegio è stata una cosa terribile per me.
Come cambia l’approccio a un dipinto piuttosto che alla composizione di una canzone? L’energia creativa è la stessa?
Beh, è naturale che sia diverso. Tuttavia c’è qualcosa che è molto, molto comune. Non so come definirla esattamente. Vorrei essere in grado di spiegarti meglio cos’è che lega questi due processi, ma non ci riesco.
Moltissimi artisti contemporanei scelgono per i loro lavori titoli complicati, fatti di frasi enigmatiche, lunghe, forse estratte da libri o canzoni. È una cosa che spesso infastidisce. Ma nel tuo caso è qualcosa di naturale: vedo i tuoi lavori e sembra che non possano chiamarsi diversamente. Pensi molto alla loro costruzione?
Recentemente mi è venuto in mente il titolo perfetto per un dipinto concluso diverso tempo fa e che era ancora in attesa di avere un nome. Capita spesso di avere lavori che rimangono distesi ad aspettare, perché magari non li considero davvero terminati, e perché sento che prima o poi dovrò aggiungere qualcosa per renderli completi. Ecco, per uno di questi lavori qualche giorno fa mi è venuto in mente un titolo perfetto. Ed era proprio quello che il dipinto aspettava: quando il titolo mi è venuto in mente, ho capito che era finalmente concluso. Ma non l’ho scritto. E non ho più idea di quale diamine di titolo fosse. Adesso il quadro è tornato a sembrarmi incompleto, è lì che aspetta…
C’è una relazione fra il titolo e l’opera? Cosa nasce prima?
Il titolo quasi mai viene prima. Quando ho avuto titoli che mi ronzavano in testa prima che iniziassi a lavorare al dipinto, e ho provato a creare un’opera che ne riflettesse il senso, il risultato è stato sempre in qualche modo artificiale. Era come privare il dipinto di quella specie di magia che si manifesta alla fine del lavoro, quando tutto sembra prendere forma, inspiegabilmente, davanti a te.
Hai una carriera immensa, per molti sei una leggenda. A sessant’anni, cos’è che ancora cosa insegui?
Voglio solo fare il mio lavoro nel modo più organico possibile. Sembra che io spenda più tempo a scappare lontano dalle cose piuttosto che a rincorrerle.
Alex Urso
Milano // dal 10 novembre 2015 al 31 gennaio 2016
John Lurie – Home is not a place. It is something else
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