JANIS, LA MIA AMICA
Immaginate di avere un’amica, la più cara che riuscite a concepire. Immaginate che lei sia goffa, sgraziata, sempre fuori posto, ma determinata a farsi una vita sua. Diversa. Immaginatela mentre scopre di avere un grande talento – canta, ha una voce incredibile – e immaginate che, dopo qualche falsa partenza, la vostra amica diventi una star. Anzi, di più: un simbolo. Il volto di una generazione, la prima donna ad avere un posto di diritto nella storia del rock. Talmente speciale che viene chiamata “the Pearl”. Vende milioni di dischi, attira folle immense di persone che stanno in piedi per ore sotto il sole, aspettando che lei salga sul palco. E ora, se ce la fate, immaginate che, al punto massimo di questo trionfo, la vostra amica Janis Joplin decida di tornare nella piccola città dove è nata e cresciuta, per partecipare a una riunione tra ex compagni di liceo, dieci anni dopo la maturità.
UN TEXAS PERENTORIO
Ci sono idee peggiori, avete ragione. Solo che Janis Joplin quella piccola città l’ha sempre odiata, anche perché quegli ex compagni di liceo non le rivolgevano parole più gentili di “maiale” e “cagna”, e le tiravano addosso monetine quando la vedevano passare nei corridoi della scuola, e mettevano in giro pettegolezzi infamanti sul suo conto. E del resto Janis, da quando è diventata famosa, non ha mai perso occasione per dire a tutta l’America che la sua cittadina natale è un vero schifo, e lei è felicissima di essersi trasferita mille chilometri lontano da quel branco di animali. Anche perché loro l’hanno più o meno obbligata ad andarsene. Ora, dato il contesto, alla vostra amica del cuore voi non direste mai: “Gran bella idea, la rimpatriata del liceo! Ci devi andare assolutamente!”. Al limite, cerchereste di farla ragionare, con calma. Al limite, le fareste qualche domanda: cosa spera di ottenere, da questa visita, di preciso? Chi le ha reso la vita un inferno quando aveva sedici anni certo non le farà l’inchino solo perché lei ha fatto i soldi con il rock’n’roll. Non è mai stata “una di loro”: non può credere che di colpo tutti le vorranno bene. Si tratta di usare il buon senso, insomma.
E invece Janis Joplin decide di andarci, alla sua festa per l’anniversario della maturità. Ci sono filmati e fotografie dei giorni che passa a Port Arthur, in Texas, e il documentario Janis ci mostra quel grande ritorno in maniera impietosa.
Janis arriva in città con un piccolo entourage, ma è molto sola, perché i pochi ragazzini con cui aveva stretto amicizia durante il liceo tutto desiderano salvo ritrovarsi faccia a faccia con i bulli e le cheerleader di un tempo.
Lei è l’unica della sua classe a essere diventata famosa – o, se è per quello, ad aver lasciato il Texas – ma è anche l’unica a non aver fatto nessuna forma di pace con il passato. Cammina per le stradine del paese con un’andatura incerta, gli occhiali con le lenti porpora calati sul naso e le piume colorate tra i capelli. Sembra recitare la parte della ragazzaccia ribelle, cosa di cui, a volte, la accusano anche i musicisti che la accompagnano.
Eppure non ci sarebbe bisogno di recitare nessuna parte: nello stesso mese, agosto 1970, Rolling Stone le dedica l’ennesima copertina; lei sta scrivendo nuove canzoni, e ha persino smesso di drogarsi – sul serio, questa volta. Non potrebbe andarle meglio, no? Allora perché decide di mettersi alla prova in questo modo, perché cerca di piacere a tutti? Lei resta in città qualche giorno, in uno sfascio via via più evidente, tenuta a distanza da chiunque non voglia scucirle un’intervista. Poi se ne va, giurando che lei, lì, non ci rimetterà piede.
Due mesi più tardi, dopo un weekend trascorso aspettando una visita di amici che non arrivano mai, Janis Joplin muore per un’overdose di eroina.
L’ATTRAZIONE FATALE PER LA PROVINCIA
È una tentazione orribile, vedere una ferita aperta nel rifiuto da parte dei compagni di scuola. Però, al di là dei singoli episodi, lei con la sua terra natale ha un rapporto ambiguo e pericoloso da sempre.
Si costruisce una vita privilegiata, prima a San Francisco, poi a Los Angeles, ma la nostalgia della provincia si infila in tutte le sue canzoni. Non arriva ad accettare completamente il suo aspetto fisico, troppo lontano dagli ideali di bellezza femminile del posto in cui è cresciuta, ma il suo successo ruota intorno all’essere “una diversa”, dalla voce alle cicatrici dell’acne sul viso. Sul palco si agita, urla, suda. Viene lodata per l’imperfezione del suo corpo, per la libertà con cui canta di sesso, di uomini, di donne, e lei sa che deve restare “una diversa” per andare avanti, ma non si libera da sogni infantili, e molto banali: una macchina di lusso, una grande villa, un armadio pieno di vestiti eleganti.
Quando scappa di casa, a vent’anni, chiede scusa ai genitori in una lettera straziante, e poi continua a tenerli aggiornati su come va la sua carriera, anche se loro non l’hanno incoraggiata a diventare una musicista di professione e la preferivano vedere sistemata e tranquilla. Alla madre spedisce i ritagli dei giornali importanti che parlano di lei, però chiede, con una certa ansia, se anche il quotidiano locale le sta dando un po’ di spazio.
Prima di trasferirsi in California tenta la fortuna in diverse città del Texas, come se cercasse una buona via di mezzo tra il paesino reazionario e la frontiera ultra-permissiva, ma non ci riesce. Per lei è sempre questione di tutto o niente. Per usare le parole di un amico: “Se tutti la amavano, andava bene, ma bastava che una sola persona non la amasse per distruggerla completamente”.
VITE PERDUTE
Purtroppo non sbaglia chi in lei vede una donna-bambina, una ragazzina sperduta. Non riesce a stare in silenzio, non riesce a stare per conto suo. Le basta mezzo secondo di pausa per farla sentire inutile, smarrita. Ogni suo movimento sembra voler smentire il verdetto pronunciato da un medico di paese ai tempi del liceo: “O la bimba si dà una raddrizzata, oppure finisce in prigione o in manicomio entro i 21 anni”. Solo un texano può essere così perentorio, forse.
Sta di fatto che Janis, a 27 anni, è ancora a piede libero, e racconta questo aneddoto durante la conferenza stampa organizzata per il suo ritorno a casa. E tutti ridono. Due mesi dopo, lei è morta.
Da quel momento in poi, si parla di Janis Joplin ogni volta che un’artista si mette nei guai per problemi di droga – buona ultima, la povera Amy Winehouse – anche se per lei “il problema” non sta negli eccessi quanto nella sua ostinazione, nel suo voler essere accettata anche da chi la disprezza. Verrebbe da chiederle: non ti basta quello che hai?
Però, fateci caso, vi prego: le stesse insicurezze che ci sembrano frustranti e incomprensibili per una grande star ci sembrano perfettamente normali se le vediamo riflesse negli occhi di un’amica, una persona vicina a noi.
Allora viene da prenderla per mano, viene solo da dirle sì, è dura, ti capisco. Viene da preoccuparsi per lei, perché sembra stare sempre bene, salvo poi piombare in un oceano di dubbi appena scende dal palco. La vediamo cantare e vorremmo chiederle: ma tu sei felice? La vediamo scherzare con il conduttore di un talk show e vorremmo chiederle: bene, sei arrivata fino a qui, credi davvero che sia possibile, adesso, tornare a casa?
IL FILM DI AMY BERG
Quando ho visto che al Festival di Venezia c’era in programma un documentario su Janis Joplin, lo ammetto, ho sbuffato. Conosciamo più o meno tutti la storia delle sue origini piccolo borghesi e conosciamo la storia della sua fine, causata da un’overdose di eroina il 4 ottobre 1970, a soli 27 anni. Janis è immortale, come e più di altre stelle bruciate troppo presto, basta ascoltare poche note di una delle sue canzoni per farla tornare in vita. Che bisogno c’era di un documentario? Eppure, mi sono dovuta ricredere, perché il film dice molte cose nuove su Janis e soprattutto le dice anche a chi è lontanissimo da quell’epoca e da quella cultura.
La regista Amy Berg è nata lo stesso anno e lo stesso mese della morte di Janis. Bionda, carina e ben vestita, è già una documentarista di riconosciuto valore: il suo primo film, Deliver Us from Evil (2006), ebbe una nomination all’Oscar. Anche grazie a questo, Amy fu contattata dai produttori che avevano in mente il film su Janis Joplin già nel 2007, ma poi per mille complicate ragioni il progetto venne rimandato di continuo. Nel frattempo, Amy ha anche fatto altro, però dice: “L’idea di raccontare Janis non mi ha mai lasciato del tutto. È una cantante che amo, ascoltarla mi restituisce energia, mi fa del bene”.
Diversamente dal film su Amy Winehouse uscito lo scorso mese e costruito come una bomba a orologeria in attesa del tragico finale, Janis si concentra su altro, sul valore anche femminista della vita della cantante.
“A quei tempi, se una donna non si adeguava alla prospettiva di un destino casalingo o segretaria, aveva una sola possibilità: diventare famosa”, ha spiegato Amy Berg. “Quindi la fama, per Janis, era rivoluzionaria. Ma diventare una rockstar era un progetto di vita che i suoi genitori non erano in grado di capire. Janis voleva avere successo per dimostrare anche a loro che la sua diversità era forza e non debolezza. Oggi un genitore che avesse una figlia con il talento musicale di Janis la porterebbe a un talent show”.
Nel film, attraverso interviste e testimonianze, ma soprattutto attraverso le lettere scritte da Janis alla sua famiglia (lette dalla voce fuori campo di Cat Power e, nell’edizione italiana, da quella di Gianna Nannini), si ricostruisce la personalità di una ragazza che era già molto sofferente. Prima del successo, prima della droga, prima di tutto.
“Per chiunque, l’adolescenza è il periodo che più influenza la vita adulta. E quella di Janis fu terribile. Non si sentiva allineata ai modelli femminili della sua epoca, veniva presa in giro brutalmente per via del suo aspetto fisico”, ha raccontato la regista. “E anche una volta entrata nel mondo della musica, in quella che lei considerava la sua nuova famiglia, l’habitat a lei più congeniale, non se la passa bene. Come si vede nel film, i suoi ‘amici’ del college a un certo punto la eleggono l’uomo più brutto del campus! Bullismo, misoginia, discriminazione. Janis ha lottato disperatamente contro tutto questo. Mi piace pensare che avrebbe risolto i suoi problemi una volta diventata adulta, purtroppo non è andata così. E’ una storia triste, ma occuparmene mi ha insegnato tanto. Sulla capacità di ribellione delle donne, quindi anche sulla mia”.
Jussin Franchina
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