La moda, il sacro e l’icona anoressica
Dopo l’editoriale di Clara Tosi Pamphili, torniamo sulla questione della modella emaciata ritratta sulla copertina di novembre di Marie Claire. Stavolta a scrivere è Roberto Ago, che la pensa in maniera diametralmente opposta. E dentro la discussione ci finisce anche la questione del Gender.
UNA IMMAGINE DI CULTO
L’editoriale a firma dell’esperta di moda Clara Tosi Pamphili, di recente pubblicato su Artribune e intento a soppesare l’opportunità della discussa copertina di novembre di Marie-Claire, che ritrae l’ennesima modella anoressica, solleva suo malgrado questioni di primo piano relative al “sacro” e alle iconografie che lo veicolano. L’argomentazione dell’autrice in difesa della copertina è palesemente di parte o ideologica. Solo da un punto di vista logico, senza entrare nel merito di argomenti o premesse alquanto discutibili, suggerire che se A (la modella anoressica) non è tanto diversa da B (la chirurgia plastica che nessuno rimprovera), allora nemmeno A è da rimproverare, è fallacia degna di manuale, oltre che astuzia retorica abusata. Ma non è questo il punto. Vorrei analizzare piuttosto il portato estetico e antropologico della copertina incriminata, tuttora ignoto.
Da un punto di vista estetico, bisogna ammettere come questa vera e propria “immagine di culto” sia più forte, autentica e polisemica di tanta arte modaiola. Ma veicolando, curiosamente attraverso una “edicola”, l’immagine neogotica e di per sé problematica di una fanciulla evanescente e mortifera, potrebbe sortire influssi negativi su lettrici non in grado di fronteggiare un memento mori dissimulato dal glamour, specie se martiri del dio digiuno. Nessuno scudo d’Atena è a proteggere i loro occhi avidi di conferme, in questo mese dei morti. Quando lo sguardo del sacro, è noto, pietrifica, edificando i suoi monumenti tanto per cambiare su corpi umiliati, feriti e a volte proprio seppelliti. Lo scandalo che la copertina sta suscitando in molte donne è il contraltare probante che qualcosa di oscuro e profondo è in essa contenuto, non foss’altro perché nessuna patente artistica o finzionale ne ha informato l’apparire, e ammettere il contrario significherebbe contrabbandare un’evidente falsità. Oltretutto, i pareri degli esperti circa l’influenza della moda anoressica sui disturbi alimentari, pur eterogenei, convergono. Se il mimetico René Girard* non ha dubbi sulla sua colpevolezza, psichiatria e psicologia, pur insistendo sui retroscena famigliari, le assegnano un comprovato effetto edulcorante, emulativo e ipnotico. Da cui operatori di moda e pubblicità che avrebbero l’obbligo morale di darsi una regolata. Punto e basta.
QUESTIONI DI METODO
Perché le icone della moda sono tendenzialmente anoressiche? Prima di procedere nella nostra indagine, due parole su questioni di metodo. Per individuare la loro comune matrice e l’informazione che veicolando riproducono, dovremo oltrepassare una soglia protetta da un evidente quanto oscuro tabù prescrittivo, istituito non si sa bene da chi né perché, né quanto consapevolmente. Per quanto ne sappiamo, il misterioso artefice potrebbe non gradire che esso venga svelato prima di tutto a lui stesso. Dovremmo desistere? Non staremmo tradendo, in quel caso, il nostro mandato illuministico di “iconologi”? E di “imagologi” al servizio di damigelle vessate, anche? Crediamo di sì, e un conto è rintracciare le origini di un culto della magrezza che Girard individua nell’aristocrazia mitteleuropea del XIX secolo, un altro illuminare un fenomeno estetico che tale culto intercetta senza scandagliarne un’anagrafe ed eziologia del tutto diverse.
Scartata l’ipotesi di una domanda del pubblico femminile che condizionerebbe l’offerta di moda e pubblicità, perché palesemente è vero il contrario, come peraltro Tosi Pamphili riconosce per prima, non ci resta che indagare nel reame di chi il capo d’imputazione lo confeziona. Un Olimpo della moda che al pari di quello aristocratico detta legge in fatto di gusto non rappresenta, nonostante l’apparente perspicuità, un credibile motore primo, semmai la sua copertura. La psicologia mimetica o “interdividuale” di Girard rigetta con ostinazione la tesi, comune a psichiatria e psicologia, di disturbi alimentari dai natali domestici e solo in seconda battuta interessati dalla mimesi modaiola. A nostro parere, non comprendendo come si tratti di rintracciare in un ambito familiare altrettanto mimetico della società, ma indubbiamente più rilevante per il soggetto disturbato, logiche sacrificali che se non contemplassero anche e soprattutto la famiglia, non sarebbero più ubique come Girard e noi con lui riteniamo. Come nella vita così nella moda, le cause efficienti del sacrificio collettivo che ammanta i corpi di modelle e modelli con esiti progressivamente audaci devono essere celate e potenti, non riducibili a una mimesi pubblica certamente coinvolta, ma nemmeno immemore del resto.
COSA C’ENTRA L’ORIENTAMENTO SESSUALE?
Che resto? Eccoci a varcare la sacra soglia senza bussare ma anche senza oltrepassare un’evidenza strettamente fenomenologica. Non sarà che, dietro l’estrema magrezza che ossessiona la gran parte dei couturier, vi sia non la preoccupazione che un corpo sensuale vesta i capi d’abbigliamento con meno compostezza dei manichini, una tesi corretta ma come vedremo derivata e dunque accessoria, quanto una rilevante presenza gay nel mondo del fashion design che tenderebbe a rimuovere dai corpi, sublimandola, l’identità di genere comunemente intesa, maggioritaria ed eterodiretta, la stessa che un’artista come Vanessa Beecroft va sacrificando nei cloni virginali di se stessa? A cascata ciò genererebbe un “diktat anoressico” inconsapevole delle cause prime e che si riverbererebbe sull’intera corporazione degli addetti ai lavori, fino a conquistare una fetta di pubblico quanto grossa, non è dato sapere.
Tale tesi in realtà è opinione diffusa, perfino tra gli addetti ai lavori, ancorché sottovoce. Chiunque sa come i gay, che sono persone subdole o deliziose tanto quanto gli eterosessuali, solo mediamente più creative, essendo in numero maggioritario ai vertici delle case di moda necessariamente costituiscano una casta omogenea, quantomeno nel suo impatto sui consumi e l’immaginario che i consumi orienta. Quest’ultimo ha in androginia e magrezza due caratteristiche imprescindibili, rintracciabili sia nell’incedere di modelle e modelli sulle passerelle, sia sui cartelloni pubblicitari. Mettiamoci infine alcuni studi di settore come i Gender Studies e i resoconti degli antropologi culturali, che teorizzano un’omosessualità eterogenea nelle cause e negli effetti a seconda dei contesti culturali nei quali è data, e il legittimo desiderio di appartenere a una comunità di consimili oggi dedita al cucito come una volta ai simposi appare perfettamente intelligibile, tanto più in un Occidente schizofrenico intollerante con l’omosessualità ma non con i capi firmati.
Fatte salve le dovute eccezioni, perché il demiurgo gay è necessitato a marchiare violentemente i corpi di indossatori e indossatrici, caricaturizzando i suoi sigilli identitari? Ogni corporazione o “clan” presuppone un confine identitario o “totemico” che mentre coccola gli inclusi, inevitabilmente costella degli esclusi, non di rado vissuti come una minaccia ora da mantenere confinata all’esterno, ora da espellere, ora da purificare attraverso un sacrificio in vista della sua assimilazione (parziale). Quest’ultimo caso informa la quintessenza della moda, e richiama, oltre al capro espiatorio girardiano, il rituale iniziatico e antropo-poietico compendiato dagli antropologi culturali. Per la sua leadership indiscutibilmente gay e i sodali d’ogni inclinazione che la sostengono la minaccia, a un tempo temuta e cogente, è l’identità di genere eterodiretta, lo si evince dall’accanimento con il quale è dissimulata, negata, umiliata sulla carta stampata come sulle passerelle, a cominciare dall’estrema magrezza imposta a lavoratori e lavoratrici fino al punto di provocare loro amenorrea, svenimenti e in qualche raro caso perfino la morte. L’androginia perseguita attraverso il sacrificio dei corpi con la loro vitalità e sessualità animali tradisce un’opera di antropo-poiesi dal sapore vagamente alchemico, misticheggiante e imperialista, quando dovrebbe essere affare solo privato se non fosse che, attraverso la moda, finisce per annullarsi ogni distinzione tra sfera pubblica e privata.
SENZA IL PRINCIPE AZZURRO
Ecco allora che la modella di Marie Claire può evocare sia il dandy efebo e maledetto, sia la principessa rinchiusa nella torre, certo con un tesoro nelle tasche, ma dimentica del prode a cavallo che la tragga in salvo da una clausura anche ermeneutica che troverà conferma tra gli interpreti più smaliziati. Dov’è finito il cavaliere che dovrebbe restituire il sorriso alla virgo dimezzata? Appunto. Se si è dileguato, significa necessariamente che sia stata sacrificata? Basta guardarla: sotto il vestito (quasi) niente. Pensando alla mortificazione dei suoi tratti sessuali secondari e alla melanconica androginia in generale pubblicizzata attraverso migliaia di modelli/e, per un termine mimetico mai così puntuale, quindi alle innumerevoli sfilate di grucce spolpate in giro per il mondo, autentiche processioni iniziatico-sacrificali, e ancora alle castità sacerdotali, medievali, vittoriane evocate da corpi irrigiditi e monotoni che rimarranno tali anche nel dopolavoro, il senso di tanta ascetica tenacia nell’evertere la femminilità e, all’opposto, nell’ingentilire la mascolinità, appare infine cristallino: sotto un vestiario che più multiforme non si può, l’immaginario psicosomatico della moda è al contrario unilaterale, uniformante e universalizzante, in una parola “omoerotico”, il frutto inconfondibile di una temperie sacrificale ad opera di un vertice monocolo e monopolistico, non il primo né l’ultimo, né certamente l’unico, che necessita di espellere la “differenza” per autoperpetuarsi. Una moda il cui principale mandato è quello di alimentare un sacrificio collettivo letteralmente “tra-vestito”, e non viceversa, tanto da suggerire che si sia sviluppata per mascherare opache ragioni inconsce sia individuali sia collettive, che non spetta a noi illuminare ma i cui effetti appaiono sottilmente ritorsivi nei confronti della “sponda totemica” opposta e rivale.
Sarebbe un errore e un’ingiustizia, tuttavia, ricondurre tale novella divinità assetata di corpi ai soli natali omosessuali dei suoi sacerdoti, tanto da misconoscere un salto di scala che contempla un esercito di eterosessuali al suo servizio e una fetta di umanità convertita al suo culto. Se non è lecito tacere un totem orientato sulla stella gay che coopta fanciulle e fanciulli anoressici, complici di necessità ovvero non meno abusati perché consenzienti, nessun sermone in odore di caccia alle streghe costituisce l’oggetto di un’indagine estetica che riguarda prima di tutto un’importante icona della moda, e solo incidentalmente l’immaginario gay che la informa. Ma soprattutto, la necessità di illuminare un’imago devozionale che immortalando una tipica vittima, tutte le convoca, non può in alcun modo essere rovesciata nell’accusa di omofobia.
IL DOMINIO DEL SACRO ARCAICO
Di fallacia in fallacia, tenterà un’estrema ratio l’avvocato del diavolo: tradiscono una fondazione sacrificale anche il calcio e le annesse tifoserie violente, la boxe, le corse dei motori, l’alpinismo e l’apnea profonda, fumo, alcool e scommesse di Stato, i mezzi di trasporto, l’energia atomica, il consumo di carne animale. Tutti totem rispettati in società. Dunque, anche la moda è rispettabile.
Rispondiamo che, quantomeno la moda anoressica, da sola saprebbe indirizzarci al peccato originale di ciascun totem e di molti altri ancora, rovesciando ogni verdetto di innocenza. Essa è solo l’ennesima dimostrazione empirica del celebre “misconoscimento” (méconnaissance) girardiano, in un mondo secolarizzato nel quale i meccanismi del sacro arcaico regnano ancora sovrani (perché inconsci) e tutt’altro che estinti.
Roberto Ago
*Mercoledì 4 novembre, pochi giorni fa, René Girard si è spento all’età di 91 anni a Stanford negli Stati Uniti, dove viveva e insegnava da molti anni.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Belting, H., (2001) Antropologia delle immagini, Carocci, 2011
Bruch, H., (1978) La gabbia d’oro. L’enigma dell’anoressia mentale, Feltrinelli, 1983
Fornari, G. e Tugnoli, C., L’apprendimento della vittima. Implicazioni educative e culturali della teoria mimetica, Franco Angeli, 2003
Galimberti, U., Il corpo, Feltrinelli, 1983
Girard, R., (1972) La violenza e il sacro, Adelphi, 1980
(1978) Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Adelphi, 1983
(2008) Anoressia e desiderio mimetico, Lindau, 2009
Recalcati, M. e Zuccardi Merli, U., Anoressia, bulimia, obesità, Bollati Boringhieri, 2006
Remotti, F., Fare umanità. I drammi dell’antropo-poiesi, Laterza, 2013
Selvini Palazzoli, M., L’anoressia mentale. Dalla terapia individuale alla terapia familiare, Raffaello Cortina, 2006
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati