Arte & Cinema: una frontiera porosa
Come possiamo oggi distinguere un video o un film d’artista da una pellicola cinematografica, tradizionalmente intesa? Quanto il “come” influenza la nostra percezione del “cosa”? Quali gli indizi per cogliere differenze e assonanze tra i due? Qui vi raccontiamo cosa sta succedendo in questi due ambiti della creatività, così lontani e così vicini.
POLTRONCINE? SCHERMO SINGOLO?
Il primo indizio per distinguere un video o un film d’artista da una pellicola cinematografica potrebbe essere il contesto, il luogo in cui il video o il film viene proiettato, o per meglio dire installato. Se ad esempio ci troviamo in una galleria d’arte privata o nella sala di un museo, potremmo essere quasi certi che si tratti di un’opera di un artista visivo. Troppo semplicistico? Forse sì. Questo significherebbe che, al contrario, se ci trovassimo in una sala cinematografica, saremmo necessariamente di fronte a un film pensato e “confezionato” solo per il grande pubblico. Senza entrare nel dettaglio, quante volte ci è capitato di assistere a proiezioni in sale cinematografiche di pellicole estremamente visionarie e lontane da codici cinematografici?
Il formato? Altro indizio importante ma, prima di approfondire quest’aspetto, facciamo un passo indietro. Sembrano passati secoli da quando Nam June Paik trasforma l’apparecchio tv in vera e propria scultura da assemblare, e la televisione in un linguaggio da sperimentare artisticamente. Quello stesso apparecchio diventa poi il contenitore per raccontare le performance effimere, non ripetibili, degli artisti concettuali. A quel tempo gli unici strumenti impiegati per testimoniare happening e performance sono la fotografia e il video. A partire dagli Anni Novanta c’è stato un proliferare incontrollato di videoartisti che si sono concentrati, oltre che sul cosa, sul come. Ovvero sul mezzo in sé, sulla modalità di “presentare” un lavoro video. Proiezioni monocanale, multicanale, schermi tanto liquidi quanto immersivi. Solo per fare qualche riferimento esemplare ed esemplificativo: Eija-Liisa Ahtila, Isaac Julien, Doug Aitken e Aernout Mik. Con loro la parola video è necessariamente associata a installazione. Negli ultimi dieci anni abbiamo invece assistito a un altro fenomeno. Molti videoartisti sono andati a caccia del vasto pubblico spingendo l’acceleratore sull’aspetto narrativo, dando vita a ciò che comunemente siamo abituati a chiamare film. Ma non tutte le prove sono riuscite, o quantomeno ancora oggi sono difficilmente collocabili.
FILM INFINITI E CARRIERE BIFRONTI
Qualche esempio ci aiuterà a capire assonanze e differenze. Dove collocheremmo per esempio un film della durata di 24 ore in cui il tempo è perfettamente scandito da un montaggio incalzante di scene tratte da migliaia di scene di film celebri? Quell’opera metafilmica dell’artista americano Christian Marclay dal titolo The Clock si è guadagnata il Leone d’Oro a una Biennale di Venezia. Eppure era proiettata non stop in un cinema veneziano. Qualcuno si è spinto oltre, presentando a un’edizione di Documenta un lavoro video della durata talmente inverosimile che a guardare la didascalia si era portati a pensare a un errore di battitura. Mentre gli spazi espositivi erano chiusi, l’opera continuava a scorrere sul monitor senza che però nessun visitatore potesse vederla. Forse qualche guardiano notturno.
Dove “posizioneremmo” le storie epiche e visionarie di Matthew Barney, prima e dopo Björk, proiettate al cinema? Siamo ancora nell’ambito della cosiddetta videoarte, ormai snaturata, trasformata, o ci avviciniamo al mondo del cinema? La risposta diventa più verosimilmente chiara se ripercorriamo brevemente la carriera dell’artista afro-inglese Steve McQueen. Sudafrica, anno 2002, la telecamera ci guida nelle profondità di una miniera d’oro. Il buio è totale, viene interrotto solo dagli squarci di luce improvvisi delle lampade dei minatori. Siamo di fronte al capolavoro girato in super8 dal titolo Western Deep di McQueen, classe 1969, vincitore del Turner Prize nel 1999 e rappresentante del Padiglione inglese alla Biennale d’Arte di Venezia dieci anni dopo. Quel corpo, rappresentato in tutto il suo deperimento o al contrario come “macchina” da sesso, lo ritroviamo in entrambi i film con cui l’artista e regista ha raggiunto il successo internazionale. Parliamo di Hunger, Caméra d’Or come opera prima al Festival di Cannes, e Shame, col quale l’interprete irlandese di origini tedesche Michael Fassbender si è aggiudicato la Coppa Volpi come miglior attore alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2011. Il recente Twelve years a slave ha sbancato alla notte degli Oscar. Quello stesso artista continua però a “frequentare” le gallerie d’arte private e spazi espositivi prestigiosi come lo Schaulager di Basilea, che gli ha dedicato una vasta retrospettiva, organizzata con l’Art Institute di Chicago.
FESTIVAL E FASHION FILM
Sono molti gli artisti visivi invitati a festival di cinema, l’elenco è fitto. Solo per citare alcuni esempi nostrani, pensiamo a Zimmerfrei, Masbedo, De Serio, Ancarani, Rä Di Marino, Marinella Senatore o Luca Trevisani, che dopo il suo primo lungometraggio “ibrido” sta per iniziare le riprese del secondo “film”. Allo stesso tempo ci capita di visitare una mostra dedicata al rapporto tra cinema e arte al Pac di Milano e ci troviamo di fronte a un elenco impressionante di video, tutti proiettati con lo stesso formato (16:9). Così diffusamente omologati che ci è venuta nostalgia dei monitor Sony da 21” con tanto di carrello in alluminio al seguito, o del rumore dei proiettori super8, 16mm o 35mm.
Per tornare al cinema, che dire della pellicola di Shirin Neshat dal titolo Donne senza uomini che ha trionfato alla Mostra del Cinema di Venezia del 2009 aggiudicandosi il Leone d’Argento per la migliore regia? Sicuramente meno indigesta, almeno per il vasto pubblico e per gli appassionati di cinema, rispetto a una pellicola dell’artista thailandese Apichatpong Weerasethakul, che però col film Lo zio Boonmee ha vinto la Palma d’oro al Festival di Cannes nel 2010 grazie al sostegno di un visionario come Tim Burton, presidente della giuria di quell’edizione.
Siamo al punto di partenza. Se allarghiamo la nostra indagine ai cosiddetti fashion short movie – ormai mezzi privilegiati di promozione da parte dei brand, perché facilmente veicolabili sui social media – realizzati da artisti visivi, la questione si complica ulteriormente. La loro produzione è cresciuta molto negli ultimi cinque anni. Basti pensare al successo globale, almeno nelle megalopoli della moda internazionale, di A Shaded View on Fashion, festival internazionale di film sulla moda, stile e beauty ideato dalla talent hunter Diane Pernet. È sufficiente fare un solo esempio emblematico. Chi avrebbe mai potuto lontanamente immaginare che uno degli artisti più poetici, schivi e visionari delle ultime generazioni, Yang Fudong, classe 1971, avrebbe “girato” un film per la campagna pubblicitaria uomo primavera/estate di Prada nel 2010? Per essere un fashion film, First Spring è piuttosto lungo, circa dieci minuti, e considerando i film di Fudong, dove la lentezza non è certo un elemento accessorio, l’artista cinese deve aver fatto uno sforzo incredibile per condensare tutto in pochi minuti. La sua cifra stilistica però è tutta lì: creature, modelli e modelle filiformi, ultraleggeri, fluttuano appese a ombrelli nei cieli di una Shanghai Anni Trenta. Giovani vestiti Prada si muovono tra caffè e sale da ballo. Per le strade s’incontrano o, sarebbe meglio dire, appaiono cinesi di ogni epoca che volteggiano nell’aria con le loro valigie. L’atmosfera è sognante e l’uso magistrale del bianco e nero sembra “ammorbidire” le forme.
IL PUNTO FERMO: LA QUALITÀ
Siamo di nuovo al punto di partenza. La questione oggi è un’altra. In un’epoca in cui i confini creativi si liquefanno, collassano, ha ancora senso limitarsi a differenziare? A cercare in tutti i modi di catalogare, etichettare, di far rientrare un’opera multimediale in rigide categorie? Quanti film oggi vengono girati e, non riuscendo ad avere un’adeguata distribuzione, allietano gli occhi e le menti di pochi privilegiati e addetti che hanno la fortuna di girare per festival? Se rivediamo film celebri oggi, scopriamo in fondo che la narrazione non era la mera trascrizione su pellicola di una “sceneggiatura” di ferro, scritta a tavolino da strateghi della comunicazione, ma nasceva da uno studio straordinario, a volte maniacale. È meno “artista” visivo Stanley Kubrick con Shining, di Keren Cytter, che nei primi suoi video low-tech ci raccontava la vita dei suoi amici e oggi scimmiotta le dinamiche dei social network? La domanda è retorica. È più “artista” visivo Werner Herzog con Fitzcarraldo o Cave of Forgotten Dreams, di Francesco Vezzoli che in uno dei suoi primi cortometraggi inscena un siparietto patetico con Iva Zanicchi nel Museo Mario Praz di Roma dal titolo, altrettanto patetico, OK, the Praz is Right!? Anche queste domande sono retoriche.
Ciò che dovremmo cominciare a chiederci oggi è se molte delle produzioni video in circolazione, nel settore dell’arte, meritino o meno di entrare in una galleria privata o a un festival di cinema. Così come se la produzione di un artista che cerca di “sconfinare” il mondo ristretto dell’arte contemporanea sia o meno all’altezza di tenere il passo con film di registi geniali che si confrontano con il giudizio di centinaia di migliaia di spettatori. Per non parlare della Rete, dove il numero dei potenziali fruitori diffusi e simultanei può raggiungere numeri impressionanti e simultaneamente culture e abitudini visive disparate. Dovremmo anche cominciare a chiederci perché alcuni video di artisti emergenti realizzati in cinque copie, più due prove d’artista – come, solo per fare un esempio, una recente opera video di Janis Rafa (classe 1984), artista in residenza alla Rijksakademie di Amsterdam nel 2013 – sia sul mercato a 2.500 euro.
Non serve alcun passaporto per transitare dal mondo del cinema e del botteghino all’olimpo dell’arte e viceversa. Non siamo di fronte a una nuova secessione per la difesa della contaminazione tra la cultura alta del video d’autore e la cultura popolare del cinema di massa. Se però entriamo in una sala cinematografica e un film di tre ore ci appassiona così tanto da non lasciarci neanche quando usciamo dal buio della sala e ci tuffiamo di nuovo nella realtà, o in una galleria d’arte ci capita, sempre più spesso, di abbandonare un cosiddetto “video d’arte” (fiction, realistico, documentaristico o found footage) e le relative cuffie d’ordinanza dopo pochi minuti, ci sarà un motivo.
Daniele Perra
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #27
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