Se Caravaggio diventa mafioso
Tutti entusiasti del Caravaggio 2.0, la replica della Natività rubata dalla mafia quasi cinquant’anni fa, che ora torna nel suo oratorio a Palermo. Ma siamo sicuri che ci sia tanto da gioire? Cosa ci racconta, davvero, questa vicenda? Ad esempio della mancanza di dibattito sui nostri giornali...
LA MAFIA RUBA CARAVAGGIO
Tra il 17 e il 18 ottobre 1969, due ragazzi entrano nell’Oratorio di San Lorenzo in via dell’Immacolatella 3 a Palermo. A colpi di taglierino staccano la Natività con i Santi Lorenzo e Francesco d’Assisi di Michelangelo Merisi dall’altar maggiore. La tela è grande (circa tre metri per due) ed è uno straordinario capolavoro dell’ultimo decennio di vita – breve – del Caravaggio.
Forse i due erano legati a qualche cosca mafiosa. Alcuni pentiti hanno fornito diverse versioni sui destini della tela. Per Giovanni Brusca il furto era stato commesso su commissione dei corleonesi, che poi avrebbero proposto la restituzione del dipinto in cambio di un alleggerimento del 41 bis, rifiutato dallo Stato. Per altri giace sepolto, come il tesoro di un faraone egizio, insieme al boss Gerlando Alberti. Per altri stava in casa di Gaetano Badalamenti, mentre Gaspare Spatuzza riferisce che, affidato alla famiglia Pullarà, il dipinto sarebbe finito in una stalla dove sarebbe stato roso da porci e ratti. Ma non mancano riferimenti a una sua distruzione durante il terremoto dell’Irpinia, giusto prima di essere venduto a un misterioso compratore inglese, o ricostruzioni più fantasiose che lo vorrebbero steso a mo’ di tappeto in casa di Totò Riina o appeso durante le riunioni delle cosche come simbolo di potere. Fantasie su cui aveva lavorato anche Sciascia nel suo Una storia semplice, che alla vicenda del quadro è ispirato.
Fatto sta che il furto è – molto probabilmente – da imputare a una volontà mafiosa e che lo Stato, con più o meno informazioni, in quarantasei anni non è mai riuscito a recuperare l’opera.
CORNICI VUOTE PER RICORDARE IL FURTO
Il 18 marzo del 1990 due uomini vestiti da poliziotti entrano all’Isabella Stewart Gardner Museum di Boston – la casa in cui la signora, eponima del museo, ha lasciato circa 2.500 pezzi d’arte “for the education and enjoyment of the public forever”. Ci sono un affresco di Piero della Francesca, una delle Poesie di Tiziano, El Jaleo di Sargent e tanto, tanto altro.
I due uomini, con discreto gusto, rubano opere d’arte per un valore complessivo di 500 milioni di dollari: oltre al Concerto di Vermeer, un ritratto di coppia e una rarissima marina di Rembrandt, un ritratto di Manet, alcuni schizzi di Degas e altro – in totale, tredici opere.
Oggi, nel 2015, chi visita l’Isabella Stewart Gardner (se ci si chiama Isabella, è pure gratis), trova ancora appese al muro le cornici, vuote, delle opere rubate. Sono lì, a rispettare la volontà della defunta che tutto rimanesse esattamente come l’aveva lasciato, ma anche a perpetrare il ricordo dell’odioso gesto; a stimolare nel visitatore la curiosità di informarsi e, magari, di riconoscere chissà dove l’opera rubata. È, in modo tipicamente americano, un sofisticato Wanted in esposizione permanente.
L’AURA NON CONTA PROPRIO PIÙ NULLA?
Oggi, nel 2015, chi invece visita l’Oratorio di San Lorenzo può ritrovare una riproduzione fedelissima del Caravaggio trafugato. È stata inaugurata un paio di giorni fa alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e delle autorità cittadine. Sponsor ne è stato Sky Arte, mentre la realizzazione, con sofisticatissime tecnologie, della copia spetta ad Adam Lowe.
Sono due scelte, culturali ed espositive, opposte. E in quanto tali vanno giudicate. Scevro da ogni ansia luddista contro il camuffamento tecnologico (che è lo stesso che può aiutare nei restauri), ogni storico dell’arte dovrebbe interrogarsi a fondo sul valore culturale dell’una o dell’altra scelta, ed esprimersi. Vi sono delle ragioni – nobilissime – che presiedono alla scelta di riprodurre l’opera: in primis dare la possibilità al grande pubblico di vederla – “ma vedere cosa?”, dovrebbe essere la domanda successiva.
Al di là di questo, ci sono però altre implicazioni che avrebbero dovuto suggerire maggior cautela rispetto all’iniziativa, o almeno rispetto al plauso che le è stato riservato. Sarebbe piaciuto leggere una riflessione a questo proposito sulle colonne dei nostri quotidiani, le cui pagine di cultura – manco a dirlo – si sono come al solito appiattite sul copia-incolla del comunicato stampa di turno.
Qualcuno avrebbe potuto tirare in ballo le pagine di Benjamin sulla riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, intuendo che con questo gesto si distrugge, forse una volta per tutte, il modello estetico che ha dominato per secoli la cultura occidentale, basato sul valore dell’originale in quanto frutto selezionato della storia, a cui va sostituendosi un altro, alternativo, basato sul valore effimero dell’aspetto, per cui basta che l’opera sia come l’originale.
Qualcuno avrebbe potuto indicare la direzione, pericolosa, verso cui punta aderire a una simile concezione, anche solo simbolicamente, anche solo una tantum. Si apre la via, infatti, ad allestire musei di sole riproduzioni e mostre di sole riproduzioni (ne abbiamo già viste), e quindi – badiamoci – a fare del nostro stesso Paese una discarica a cielo aperto di anticaglie molto costose da mantenere, riproducibili altrove a poco prezzo, e non più dotate, in sé, di un valore estetico (ed economico) superiore in quanto originali. Cosa ci rimane, dopo? Petrolio, lungo la coste della penisola, ne abbiamo poco…
UN ATTO OMERTOSO
Però, almeno, in Italia, a Palermo, qualcuno avrebbe potuto dire che questo gesto potrebbe assumere un valore diverso. Se mantenere viva la memoria del furto è una prerogativa della cultura americana che si fonda sulla proprietà privata (al punto che a tutela di essa è ammesso l’omicidio di altri esseri umani), in Italia mantenere viva la memoria degli atti mafiosi dovrebbe essere prerogativa di una comunità che rifiuta l’odioso ricatto dell’associazionismo mafioso. Invece questa copertura della falla, del buco vero e proprio, ha tutto il sapore di un “facciamo finta che niente sia accaduto”, che è esattamente ciò che distrugge la Storia.
Della storia del dipinto fa parte anche il suo furto. Il tentativo di dimenticare un pezzo della storia, o di ri-produrne in modo palmare un altro – come il cartografo di Borges che vorrebbe riprodurre il mondo in una cartina 1:1 – non solo è senza senso, ma è assai pericoloso. Già si legge che, in un’epoca in cui il terrorismo minaccia la distruzione delle opere d’arte (come se noi, in Europa, non ce le fossimo mai distrutte…), a noi rimane un’arma per sconfiggere questa barbarie: la riproduzione in HD.
Se fossimo educati all’uso delle tecnologie avremmo imparato a riflettere su questi temi, come se fossimo educati alla Storia avremmo imparato dalla Shoah che le distruzioni non si recuperano mai, solo si ricordano. I tedeschi hanno costruito l’Holocaust-Mahnmal in centro a Berlino, si sono auto-denunciati di fronte al mondo, non sono andati alla ricerca di un modo di mettere a tacere l’orrore. L’orrore va ribadito, denunciato, non (mal)celato. Storico sarebbe stato chiamare un artista contemporaneo a denunciare, di nuovo, la presenza di quel buco così ingombrante sull’altare maggiore.
E invece ecco che la ferita “si rimargina”, il finto Caravaggio già si trova su Internet con la didascalia come se fosse l’originale, e sotto la ferita – rimarginata, per carità – il tumore cresce.
A Boston la storia rimane viva, perché rimane la memoria. A Palermo la memoria, ancora una volta, si appanna, e la storia muore. E allora moriamo anche noi, e la mafia è come se ce l’avesse rubato di nuovo, quel dipinto.
Giulio Dalvit
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