Riusare ciò che resta. La città secondo Alberto Ferlenga
La storia, quella europea soprattutto, lo insegna da secoli: per restare viva, una città deve cambiare sempre, continuamente. Non c’è tutela che tenga. E se lo dice pure il neorettore dello IUAV. Eccovi un estratto dall’ultimo libro di Alberto Ferlenga, intitolato “Città e Memoria come strumenti del progetto” e pubblicato da Christian Marinotti.
Se il ruolo delle infrastrutture nel mondo d’oggi è senz’altro paragonabile a quello assunto in altre epoche da cattedrali, fabbriche o castelli, altri temi, sulla spinta di una consapevolezza nuova nei confronti dell’ambiente, hanno una analoga importanza nel dibattito odierno sulla
città. […] Uno di questi è il riuso che, trasferito da altri campi, è tornato ad incrociare quello dell’architettura. Dico ritornato non a caso perché l’azione che sottende, malgrado si tenda a dimenticarlo e a fare distinzioni, non ha mai abbandonato l’evoluzione di case e città. […]
Non vi è dubbio che la necessità di rimettere in circolo scorie e rimasugli dei processi edilizi cambiandone il senso rappresenti una necessità e, al tempo stesso, un’occasione. È altrettanto evidente che questo tipo di esigenza si coniuga, oggi, con un’urgenza, il risparmio di risorse, radicalmente diversa da quella che in altri tempi ha interessato l’umanità.
Vi è poi la dimensione del problema a dare oggi un senso diverso all’intera questione. Nuove forme di abbandono interessano interi quartieri di città, per esempio nell’est europeo o in centri ex-industriali come Detroit; migliaia di chilometri di tratti stradali o ferroviari giacciono abbandonati (solo in Italia si contano 6.000 chilometri di ferrovie dismesse) e a questo si sommano le installazioni militari rese obsolete dalla fine della guerra fredda, i porti declassati, i confini aboliti e via dicendo. Lo smaltimento integrale di tutto ciò, oltre ad essere economicamente insostenibile, risolverebbe solo una piccola parte del problema mentre il resto assumerebbe, sempre più, il ruolo di moderna rovina, con l’aggravante, in termini paesaggistici, dell’assenza di qualità architettonica.
Nonostante questo, bisogna ricordare che in un luogo denso di storia come l’Europa è quasi scontato affermare che il continuo riuso delle proprie parti in dismissione, che si tratti di edifici, di strutture difensive o di spazi aperti, sia stato l’aspetto più caratteristico della storia urbana, causa diretta di quella particolare complessità che ha reso le città europee diverse da quelle di ogni altra parte del mondo.
Si può dire che non esista momento della storia del vecchio continente in cui il riciclo di materiali precedenti non sia stato praticato o non si sia manifestato come parte di processi più estesi. L’attività di riciclo ha conosciuto, nel passato, tutte le gamme dimensionali: dal semplice riuso di materiali – pietre, metalli, legno – a quello di interi edifici o parti di città. Quel processo che ha trasformato il marmo delle statue in calce, che ha trasportato colonne attraverso i secoli e i mari, che ha tramutato teatri in piazze, palazzi in musei, costituisce una delle più evidenti dimostrazioni di quanto nelle città gli aspetti formali siano autonomi da quelli funzionali.
È a questo alternarsi di usi che si deve la sopravvivenza dei maggiori monumenti del passato, dai templi greci ai teatri romani, riciclati di continuo pur preservando il proprio ruolo di architetture importanti in città che cambiavano la propria struttura. Difficile, dunque, affermare che il riciclo sia questione solo di epoche contraddistinte dall’eccesso produttivo o dalla crisi e che compaia con il nostro tempo. Al contrario, è facile dimostrare che per l’architettura e per le città, il processo non ha mai avuto sosta, assumendo denominazioni differenti. Se le pietre romane hanno ospitato a lungo la città medioevale e se le torri medioevali tagliate per vendetta, alla Rocca Paolina di Perugia, hanno fatto da pilastro al forte papalino, anche le macerie anonime prodotte dalle guerre, il bronzo e poi l’acciaio dei cannoni hanno contribuito a disegnare nuovi territori o a far nascere nuove costruzioni.
A questo riguardo si possono fare molti esempi: dalle macerie dei bombardamenti di Londra riutilizzate a New York, a quelle di Beirut gettate a mare per guadagnare terra alla città, come si può apprendere dalle ricerche di Silvia Dalzero (Rovine, detriti, macerie dei teatri di guerra, ricerca IUAV, 2012). Ciò nonostante, come sempre avviene quando il quadro cambia, la possibilità che ciò che già esiste diventi il principale terreno di applicazione del nuovo è senza dubbio un imperativo della nostra epoca e richiede un adeguamento di tecniche e di mentalità.
Riciclare parti di città dovrebbe fornire l’occasione per riflettere su come la densificazione o la parziale distruzione possano trasformarsi in temi di progetto o su come l’adeguamento attraverso aggiunte o integrazioni di costruzioni architettonicamente obsolete ma strutturalmente integre possa cambiare l’aspetto e la vivibilità di interi quartieri. La stessa cosa si potrebbe dire per l’innesto di porzioni di spazio pubblico in aree esclusivamente residenziali, per il ripensamento di caserme, fabbriche o centrali.
E non si tratta solo di riusi materiali. In realtà, il vero problema di territori ricchi di passato come quello europeo riguarda l’esaurirsi, in esso, di significati e storie che l’avevano plasmato. Il nostro continente e in particolare il nostro Paese sono ricchi di presenze immateriali a cui si deve in modo diretto la forma di paesaggi e città ma la loro capacità di essere riconosciuti e di continuare a influire non è però eterna.
L’architettura ha avuto un ruolo importante nel consolidare il rapporto tra storia e paesaggi celebrando vittorie, ricordando miracoli, rappresentando poteri. Oggi che la sua capacità di produrre simboli diffusi sembra essersi esaurita un mondo intero di significati corre il rischio di passare dal campo fisico a quello esclusivamente immateriale. Il pericolo che stiamo correndo, in altri termini, è quello del venir meno della capacità dei luoghi di esprimere se stessi e ciò che sono stati. Questa forma di ‘‘consunzione’’ ha una conseguenza immediata per gli abitanti nella difficoltà sia di conoscere e vivere meglio il proprio territorio sia di sfruttarne in modo adeguato la bellezza dal punto di vista economico.
Il fenomeno di cui parlo, infatti, incrocia anche un nuovo importante protagonista dei nostri tempi: il turismo. La possibilità di rinnovare l’uso di insediamenti conformati dalla storia, ri-attribuendo loro evidenza e esaltando quelle differenze che rischiano oggi di essere azzerate da fruizioni turistiche omologate, apre un altro scenario al lavoro degli architetti. In questa particolare versione del riciclo, l’architettura contemporanea può svolgere un ruolo importante rinnovando valori e trasformandoli in occasioni di sviluppo sostenibile. Casi recenti come la ‘‘ristrutturazione’’ della Ruta del Peregrino in Messico, dimostrano gli effetti benefici che possono derivare dall’incontro tra un paesaggio notevole, attività consolidate dall’uso popolare (religiose in quel caso) e architetture contemporanee. Ma gli esempi in cui la storia di un territorio si valorizza grazie all’architettura contemporanea iniziano a moltiplicarsi. Anche in questo caso i modelli di riferimento sono importanti ma, data la complessità del tema e le sue variabili, l’assenza di una cultura aggiornata che superi idee bloccate di salvaguardia e conservazione paesaggistica e archeologica è il vero problema da porsi.
Alberto Ferlenga
Testo tratto da Alberto Ferlenga, “Città e Memoria come strumenti del progetto” (Christian Marinotti, Milano 2015), pp. 47-53.
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