Inpratica. Nuove noterelle sull’Italia (V)
Il quinto capitolo delle “noterelle” di Christian Caliandro è dedicato a un libro. Non a uno qualsiasi, ovviamente, ma a uno dei più importanti libri di critica d’arte del Novecento italiano: Giorgio Morandi di Francesco Arcangeli.
Il Giorgio Morandi di Francesco Arcangeli, uno dei più importanti libri di critica d’arte del Novecento italiano, è anche il più travagliato: una sorta di capolavoro oscuro. Parte essenziale e culmine al tempo stesso del percorso intellettuale e umano dello studioso bolognese, la monografia viene composta nei primi Anni Sessanta (all’indomani dunque dell’elaborazione teorica dei due saggi Gli ultimi naturalisti, 1954 e Una situazione non improbabile, 1956), ma pubblicata solo nel 1964, dopo la morte del pittore e in una versione che l’autore stesso considerava gravemente mutilata: un libro per molti versi traumatico segna proprio per questo uno spartiacque nella storia dell’arte contemporanea, italiana e non solo.
Molte sono le ragioni storiche per cui il libro è decisivo, ed esse coincidono in modo non casuale con i motivi della rottura tra l’artista e il critico. La monografia rappresenta infatti per Arcangeli l’occasione unica per tracciare un’ambiziosa sistemazione complessiva del Novecento artistico europeo, il cui perno è proprio l’opera di Morandi – e per presentare una personale concezione della storia dell’arte contemporanea (e non solo), radicalmente alternativa e innovativa rispetto alle versioni storico-artistiche più in voga nell’Italia degli Anni Cinquanta e Sessanta.
Il ristretto gruppo di opere del 1931 (sette dipinti e quattro incisioni), e in particolare il modo in cui questa produzione artistica morandiana emerge dalla trattazione di Arcangeli (costituendone di fatto il nucleo fondante), in confronto alle letture che ne erano state date da altri critici – soprattutto da Cesare Brandi – e dallo stesso pittore sono fondamentali per interpretare e contestualizzare correttamente la proposta critica dell’Ultimo Naturalismo: “Nel ’31 Morandi […] torna a colare a picco. Modestamente, senza importunar nessuno, senza che nessuno lo intenda davvero, dipinge quadri e lavora alle incisioni ch’io ritengo le opere più ardite e nuove nell’Europa di quel momento. […] Davvero, come scrive il Brandi, ‘si potrebbe ora parlare di attacco dissolvente all’oggetto’; ma l’oggetto non cede mai. Strizzato e compresso, appianato entro la matrice del tondo, appena escrescente per lunghi magici accumuli, contorto in dense oscillazioni, intercambiabile con la propria ombra, non cede mai. […] L’Italia, come ‘terra dei morti’, rivive come dato d’esperienza particolare ed universale assieme: anche questa, di questi oggetti così tormentati dalla lunga osservazione quotidiana, da mutarsi in densi fantasmi, è terra di morti, ma è una morte che si vive ogni giorno, ogni ora” (in Giorgio Morandi, Umberto Allemandi & C., Torino 2007, pp. 370-371).
Questo gruppo è considerato a sua volta il negativo di un’altra serie breve ma intensa, costituita delle otto nature morte metafisiche dipinte nel 1918, insieme a due del 1919. Arcangeli presenta questi due punti collegandoli concettualmente, in maniera raffinata, usando gli stessi termini a distanza di molte pagine: ritornano infatti i concetti di “ossessione”, “allucinazione”, “lotta”, e soprattutto di “aldiqua”, “metafisica del concreto” e “metafisica quotidiana”, che lo studioso individua come il tratto distintivo che collega l’arte italiana del Novecento alla sua lunga e nobile tradizione.
Continuamente dunque il critico considera ognuno dei due gruppi come la versione speculare e ‘spettrale’ rispetto all’altra. Come verifica dunque rispetto ai “fantasmi” del 1931, egli usa costantemente le opere del 1918-19. A proposito della Natura morta (1918) della collezione Jucker scrive per esempio: “È rimasta […] una luce lentissima ma aggressiva, radente, implacabile nel non lasciar più alcuna commozione d’aria attorno ai corpi […] È in questo stato di sonnambulismo mentale, di lucida veglia, che un ‘daìmon’ a lungo represso fa scattare nel silenzio il foglio senza macchia, decapita la nera bottiglia (non più vetro grezzo, ma nera materia solida eppure impalpabile) a una tacita ghigliottina” (ivi, pp. 207-209). In questo senso, oltre ai riferimenti diretti di Giotto e di Paolo Uccello, il Carrà del Gentiluomo ubriaco (1916) diventa il riferimento fondamentale e il simbolo di questa chiave di interpretazione di Morandi, e di un’ipotesi dell’arte italiana, tutta giocata sull’equilibrio tra istanze contrapposte e apparentemente inconciliabili: “Una drammatica unità di opposti classico-mediterranei e nordico-romantici” (ivi, p. 211).
Per scoprire dunque le origini di questa ipotesi, occorre indagare questi due gruppi speculari, le nature morte metafisiche di fine anni Dieci e quelle del 1931, considerandole al tempo stesso come due gruppi eterodossi rispetto alla produzione di Morandi e come i due fulcri, centri nevralgici che la attivano, all’insegna di un difficile e critico equilibrio tra tensioni differenti. La “materia smateriata” del 1918 conduce direttamente alla dissoluzione concreta e arrestata del 1931, e ne spiega il funzionamento dall’interno: attraverso l’indagine di queste opere, infatti, Arcangeli tenta di costruire un’epica sotterranea dell’arte italiana, una sua versione alternativa. L’interpretazione critica di Morandi è rivolta sia al passato, alla tradizione, sia soprattutto a un contesto europeo presente nello stesso periodo e all’arte dei decenni successivi (Morandi come anticipazione e prefigurazione dell’Informale): la linea storico-artistica individuata comprende infatti Soutine, Fautrier, Dubuffet, Morlotti e soprattutto Burri.
Questi due “buchi neri” stilistici e critici sono il rimosso di Morandi, ciò che lo stesso pittore ha rifiutato delle sue opere. La loro natura demonica toccava evidentemente qualcosa che esulava potentemente dalla linea classica che caratterizza le altre fasi: il misterioso “aldiqua” che per il critico rappresenta il nucleo strutturale dell’arte italiana lungo i secoli.
Christian Caliandro
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