Federico Solmi. Un troublemaker a Yale
Si è imposto su nomi come William Kentridge, Gary Hill e Laurie Anderson, vincendo il Ben Main Prize alla recente Biennale B3 di Francoforte, dedicata alla videoarte. A dicembre L'Haifa Museum Of Art in Israele inaugura una sua personale. La storica galleria Postmasters di New York ha appena chiuso la sua seconda personale, mentre a Napoli Dino Morra ospita The Great Dictator. Federico Solmi è il self made artist che, dopo aver vinto il John Simon Guggenheim Memorial Fellowship nel 2009, viene ora chiamato dalla Yale University per insegnare nel Dipartimento di Arte Visive, con cattedra dedicata al Filmmaking sperimentale.
Nel 2013 abbiamo realizzato una prima intervista. Poi hai lavorato in studio per un anno e ora fai personali in Usa, Europa e Israele. Da quali idee nascono i nuovi lavori?
Come saprai, leggo molto. Per la mostra di Postmasters, intitolata The Brotherhood, mi hanno ispirato i libri di Oriana Fallaci, Intervista con il Potere e Conversazione con la Storia. Per la mostra da Morra a Napoli le fonti sono state Jared Diamond, autore de Il terzo scimpanzé. Ascesa e caduta del primate Homo sapiens, e Il Grande Dittatore di Chaplin. Negli ultimi due anni la mia ricerca è giunta a una fase di piena maturità e credo che le mostre di New York e Napoli lo dimostrino.
Sei un artista “troublemaker” e la critica Roberta Smith del New York Times ti ha indicato come un graffiante autodidatta.
La mostra di New York ha avuto un ottimo successo di critica. Il nickname “troublemaker” non è gratuito. In effetti, ho sempre preferito un linguaggio molto diretto e poco diplomatico: anti-accademico.
Sin dagli esordi, a partire dal video Rocco Never Dies (2005), la tua ricerca è stata coerente, quasi solitaria.
Sono poco attratto dai trend, ho puntato sullo sviluppo di un linguaggio originale, che mi distinguesse dagli artisti della mia generazione. New York mi ha dato le opportunità di cui avevo bisogno.
Come fa un anti-accademico a diventare docente a Yale?
L’incarico è giunto a sorpresa, non ho partecipato ad alcun concorso o open call. Avevo tenuto una serie di conferenze sul mio lavoro, dopo di che ho ricevuto la proposta d’insegnare. Ho accettato con entusiasmo, mi piace che sia una classe sperimentale.
Negli ultimi due anni il tuo cammino pare “a ritroso”. Sei partito dalla videoarte per andare verso gli attuali “video painting”, una formula da te creata capace di innestare l’immagine in movimento dentro la cornice rassicurante di un quadro. Perché lo hai fatto e cosa cercavi?
Il lavoro degli ultimi due anni rappresenta la mia incessante necessità di reinventarmi, di mettermi costantemente in gioco e di correre rischi. L’idea dei video painting nasce dalla mia determinazione di creare opere originali, uniche nel loro genere, unendo tecniche tradizionali e innovazione tecnologica.
Il tuo ultimo lavoro ritrae e prende di mira tiranni, dittatori, condottieri, esploratori: personaggi che hanno cambiato il mondo. Come pensi sarebbe oggi la nostra società se questi non fossero mai esistiti?
Credo che l’uomo abbia più possibilità di vivere una vita dignitosa nelle grandi metropoli odierne che 30mila anni fa nelle grotte. Detto questo, la mia critica non è rivolta verso le grandi azioni di uomini del passato o a noi contemporanei. Le mie accuse sono rivolte contro dittatori, governi e istituzioni che hanno falsificato e strumentalizzato, con la stupidità delle loro azioni, proprio le grandi imprese dell’umanità.
Seguendo questo pensiero, come spieghi la presenza di George Washington, padre della patria statunitense? Di cosa lo reputi responsabile?
Gli Stati Uniti sono un grande nazione, ma non si possono ignorare le atrocità e i genocidi su cui poggia la sua storia. Washington sicuramente è un mito, ma per me rimane una figura ambigua. Alla sua morte, nella tenuta di Mount Vernon erano elencati 318 schiavi di sua proprietà. La tribù degli Iroquois dello Stato di New York, sterminata dai coloni, aveva soprannominato Washington “il distruttore di villaggi”. Avrebbe potuto fare di più per proteggere i deboli, ma i suoi interessi erano altri.
Stesso discorso vale per Cristoforo Colombo?
Definire Colombo un esploratore non mi pare esatto, il termine “conquistador” secondo me è più adeguato. Anche lui, come Washington, è stato un grande uomo ma mi disturba la loro santificazione. Con questo processo si oscurano, per puro nazionalismo, le atrocità da loro compiute per raggiungere i propri obbiettivi.
Vivi a New York da oltre quindici anni e in Chinese Democracy l’hai immaginata invasa dall’esercito cinese. Come giudichi i cambiamenti avvenuti?
L’impronta di De Blasio è ancora flebile, bisognerà aspettare. Nell’ultimo decennio la città è diventata incredibilmente costosa, a causa di enormi flussi di capitali provenienti dai rappresentati delle élite economiche di Paesi come Cina, India e Russia. Ciò ha avuto conseguenze pesanti sul sistema dell’arte, che è diventato completamente dipendente dalle dinamiche di mercato.
Il tuo lavoro di critica al sistema si basa su letture e riflessioni, ma anche su quanto riportano i mass media. Come hai vissuto gli Stati Uniti di Bush e di Obama?
Al contrario di New York, gli Stati Uniti non mi sembrano cambiati. Guardo i dibattiti politici e mi pare che nel partito repubblicano, da Jebb Bush a Donald Trump, non abbiano nulla di nuovo da offrire. Ma c’è una nota positiva, e lo dico ironicamente, adesso i dibattiti sono più divertenti: le dichiarazioni Trump fanno più ridere di un Letterman Show.
È quello che hai chiamato American Circus, titolo della mostra a Haifa.
Nasce da un’opera del 2014 in cui ritraggo dei potenziali candidati alle prossime presidenziali. Era nata come opera satirica ma è diventata piuttosto tetra, forse perché evoca l’ambiguità del sistema politico americano.
Una di queste candidate è Hillary Clinton, che giorni fa ha dichiarato come l’Isis sia un prodotto della politica Usa in Afghanistan durante l’occupazione sovietica.
L’Isis è nato in Medio Oriente durante l’invasione militare americana dell’Iraq e dell’Afghanistan dopo l’11 settembre, un’invasione ingiusta fondata sulle falsità prodotte dalla Cia. Hillary Clinton, democratica e liberale, votò a favore dell’invasione.
La tua poetica sembra sottesa dalla convinzione che il potere, per sua natura, corrompa.
I sistemi politici odierni, quello americano come quello italiano, non permettono al politico di coltivare visioni a lungo termine. La corruzione sta lì: ci si preoccupa soltanto di come essere rieletti. È venuta a mancare la figura dello statista, ormai in via di estinzione.
In Israele la situazione è critica per via della terza Intifada. Come pensi che sarà accolta la tua mostra a Haifa?
Non so come sarà accolta, ma gli organizzatori del museo sono entusiasti, terranno la mostra aperta per cinque mesi.
La tua condizione è particolare: da una parte ami la Grande Mela in quanto terra delle opportunità, dall’altra vivi gli Usa come un circo corrotto, una nazione eticamente allo sbando. La tua storia da “sogno americano” si scontra con la savonarolesca tenacia con cui ti abbatti sulle figure della storia passata e dell’attualità americana.
È vero, non potrei mai lasciare New York, mi ci sento a casa. Perfino i suoi difetti sono diventati fonte d’ispirazione per me. Non so se gli Stati Uniti sono davvero allo sbando, ma se lo sono, nei prossimi anni non mi mancheranno le fonti d’ispirazione.
Sei un artista impegnato a riflettere sulla contemporaneità. Come pensi che stia influendo su di te la strage di Parigi e la questione dell’Isis in Siria? Pensi che ciò influenzerà l’arte dei tuoi colleghi troublemaker?
Provo tristezza e rabbia, come tutti, ma ciò non ha un’influenza diretta sul mio lavoro. Per quanto tragico e disgustoso sia stato, l’attacco di Parigi rimane uno dei molti attentati terroristici dell’ultimo decennio. Credo che possa avere un impatto sugli artisti giovanissimi, la mia generazione è più abituata a certe atrocità: pensa all’11 settembre, a Piazza Tienanmen, all’invasione dell’Iraq e dell’Afghanistan.
Nicola Davide Angerame
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