Londra vs Tokyo. È il vuoto che ci guarda
L’horror vacui, la paura del vuoto, è quello che ci distingue veramente dall’Oriente? A guardare come sono fatte le città, sembrerebbe proprio di sì… L’editoriale di Marcello Faletra per voi che siete in viaggio per questi giorni di festa.
“Vuote le porte d’Arcueil, vuoti gli scaloni d’onore, vuoti i cortili, vuote le terrazze dei caffè. In queste immagini la città è deserta come un appartamento che non ha ancora trovato gli inquilini nuovi”. Così Walter Benjamin rileva i primi indizi di un’archeologia del vuoto a partire dalla fotografia di Atget.
Agli inizi del Novecento il vuoto appariva come un dispositivo che apriva a un’altra visione dello spazio in un mondo già popolato di feticci. Per alcuni pionieri del vuoto (Loos, Malevic, Mondrian) la denuncia dell’illusione nell’arte diveniva sospetto verso la mimesis. Negli Anni Cinquanta l’incontro fra cultura europea e Oriente col Gruppo Gutai avvierà un confronto con il vuoto che investirà in primo luogo il corpo. Performance, Happening, Body Art si dirameranno da un medesimo ceppo di sperimentazione generato dall’incontro con l’Oriente. E Roland Barthes, dopo un viaggio in Giappone, osserverà che il corpus delle città occidentali è concepito secondo un principio per il quale lo spazio urbano si propaga dal pieno al vuoto delle periferie; mentre quelle giapponesi, al contrario, si estendono dal vuoto al pieno.
In Occidente le città seguono il principio metafisico per il quale ogni centro è la sede della verità. Ogni centro è un pieno d’essere. Mentre in Giappone il centro è un vuoto fatto di vegetazione e corsi d’acqua; un vuoto fatto di pregnanza vitale. Qui il problema si pone fra identità e assenza d’identità. “Il senza nome è il debutto del cielo e della terra”, recita Laotse, e la parola per indicare il “senza nome” è “Wu Ming”, vale a dire il “non-essere”. Il nome, l’identità appaiono solo quando l’intelletto e l’oggetto s’incontrano.
Noi occidentali non abbiamo perso tempo. Sulla scia dei monoteismi abbiamo dato un nome a tutto, prima ancora che il mondo stesso ci sussurrasse la sua esistenza. Se il pieno ci satellizza attorno a un centro, il vuoto ci fa immergere nel discreto. Il primo agisce secondo il profitto e l’accumulo delle sostanze, il secondo genera una situazione.
L’Oriente ci suggerisce che l’estetica del vuoto può essere un dispositivo che potenzialmente ci fa uscire da un’ontologia del pieno. Occorrerebbe un’archeologia del vuoto, come quella avviata nel sapere e nella storia, per scoprire che ogni epoca si mostra soprattutto attraverso i vuoti che la esprimono.
Marcello Faletra
saggista e redattore di cyberzone
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #27
Abbonati ad Artribune Magazine
Acquista la tua inserzione sul prossimo Artribune
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati